martedì 30 ottobre 2018

Mass Effect: Andromeda. Pentimenti, tempo-vita, focalizzarsi altrove e strutturali prevedibilità.


La ricchezza narrativa che può contenere un Action-Rpg mi ha sempre affascinato. La mole di informazioni che alimenta e ingrassa un Codex, una enciclopedia esegetica di voci consultabili che sorregge un mondo di gioco coerente e organico, stuzzica il piacere che solitamente provo nell'attività della lettura e rafforza la mia immersione e la mia complicità col videogioco. Sono uno di quei giocatori che in genere tende a leggere e ad ascoltare tutto, a dare importanza alla transmedialità narrativa presente e a tenere di conto, per quanto possibile, se la coerenza fra le varie parti è organica e viene rispettata. 
Affascinato ogni volta dai vari e possibili elementi espressivi, considero i testi presenti in un videogame come realtà che possono aumentare il piacere di delocalizzarsi e proiettarsi nel suo mondo: mail, lettere, note, poster affissi sui muri, registrazioni audio… A cos’altro servirebbe altrimenti una tale ricchezza documentale? Infine, non credo di essere un giocatore modello riguardo agli Rpg, ma posso essere critico verso quei pochi che ho portato a termine. Dopo svariate ore diluite in due mesi di gioco, sento quindi di potermi focalizzare sulle criticità riscontrate in Mass Effect: Andromeda.







I

Volendo riassumere sinteticamente il modo in cui sin dall’inizio ho preferito stabilirvi una complicità, ho giocato Mass Effect: Andromeda proiettando i miei valori nel suo mondo di gioco senza sperimentare altri ruoli identitari, generando quindi - per quanto possibile - una mia personale esperienza etica e finendo l’avventura senza sentire il desiderio di implicare elementi sessuali in nessuna delle possibili relazioni (rinunciando a qualche trofeo, presumo). 
Nel complesso devo dire di aver gradito l’esperienza Action-Rpg proposta da BioWare. Rispetto al decadentismo dell’epilogo della trilogia del Comandante Shepard, esiste un tono di fondo ironico - portato avanti dalla personalità dei due protagonisti gemelli Ryder - che permea e sdrammatizza la narrazione soffiando aria nei temi messi in gioco, stemperandone la gravità.
Non è mia intenzione soffermarmi sulle criticità narrative di ME: Andromeda, per quanto ve ne siano alcune abbastanza disturbanti. Voglio comunque rivelarne una che mi ha totalmente riempito di disappunto. Mi riferisco a quella in cui, dopo aver completato la missione sul pianeta Meridian, verso la fine della quest principale, si viene a conoscenza del fatto che gli Angara sono una specie creata geneticamente dagli antichi alieni Jardaan. Dopo svariate ore di dedizione al gioco che hanno permesso all'universo di ME: Andromeda di svelarsi, un fatto così rilevante non sembra aver accusato ripercussioni narrative degne di nota da parte degli Angara stessi, la più spirituale fra le specie della galassia Andromeda, notoriamente religiosa, praticante la meditazione, politeista, professante diverse fedi, credente nella reincarnazione dell'anima dopo la morte e alla ricerca costante di una divina verità. 
Se si escludono una veloce chiacchierata di Ryder con Jaal, l'Angara membro del suo equipaggio, e un altrettanto veloce scambio di pareri con un gruppo di tre Angara riuniti in consesso sul pianeta Aya, l’aver scoperto che la propria specie è frutto di sperimentazione genetica non ha implicato nulla di sensazionale. Qualcosa di così fondante, che dovrebbe ridefinire dal punto di vista ontologico, psicologico, sociale ed esistenziale la relazione che un’intera specie così spirituale instaura con la sfera del divino, in Mass Effect: Andromeda finisce col diventare un elemento narrativo senza sviluppo, che praticamente muore lì. Perché? 



II



Ciò che maggiormente mi preme ravvisare riguardo l’intera esperienza di gioco è l’aver constatato come possa esserci nulla di più amaro, qualora ci si trovi positivamente coinvolti in un vasto Rpg, di quando la “fame” per i suoi contenuti narrativi incontra una struttura troppo esplicita di progressione narrativa della sua storia.
Mi spiego.
Dopo alcune ore di gioco, la suddivisione delle missioni in “Operazioni Prioritarie”, “Alleanze e Relazioni”, “Incarichi Heleus” e “Incarichi aggiuntivi” insegna presto che la risoluzione di quelle incluse nella cartella “Operazioni Prioritarie” sblocca nuove conversazioni e argomenti lasciati a metà con certi personaggi, quelle incluse in “Alleati e Relazioni” sono vittime della medesima struttura che coinvolge altri personaggi e quelle marcate come “In attesa” sono intrecciate alla progressione delle altre due, così da non soddisfare subito la fame narrativa del giocatore. La coscienza di una tale, immutabile imposizione strutturale, finisce spesso col contaminare l'attesa verso i momenti in cui si verificherà la progressione narrativa. Una volta compresone il funzionamento, si comincia difatti a voler accelerare la conoscenza della storia e a considerare determinate fasi di combattimento esclusivamente quali porte, passaggi che conducono ai prossimi step narrativi, ad esempio. Senza accorgersene, ci si ritrova magari ad aumentare il ritmo di gioco saltando alcune conversazioni con certi personaggi, dato che fanno parte delle missioni presenti nella cartella minore "Incarichi aggiuntivi". Si giunge infine a smettere di dedicare il proprio tempo a leggere le descrizioni dei vari pianeti man mano disponibili all'analisi scanner nella galassia Andromeda. In definitiva, l’intensità dell’aspettativa con cui il giocatore si pone verso i momenti di rivelazione narrativa viene inficiata dall'aver compreso la logica dei meccanismi che muovono la loro progressione e il loro verificarsi. Inficiata dall'aver compreso lo schema esplicito del loro design. Tale criticità genera nel giocatore un sentimento di prevedibilità nei confronti dell'esperienza globale di gioco, che a sua volta ne inficia il godimento e la qualità.


A rafforzare tale criticità si aggiunge il modo in cui BioWare ha deciso di strutturare i bivi narrativi. Quando ME: Andromeda pone dinanzi a decisioni importanti che si ripercuotono significativamente sulla storia, la scelta è sempre manichea, divisa tra questo o quello, uno o due, prendere o lasciare. I quattro orientamenti dello spettro di scelte che caratterizzano i dialoghi con i personaggi (scelta emotiva, logica, disinvolta e professionale) si riducono a due opzioni obbligate (“salva o abbandona il personaggio X”, “risparmia o uccidi lo sciacallo che si nasconde nel deserto”, ecc..) Combinando la scelta cruciale di due semplici opposti alla struttura esplicita di progressione di cui sopra, l’idea di un instradamento e di una forzatura narrativa risulta ancora più marcata. Per un videogiocatore con qualche anno di esperienza dietro le spalle, che ha sviluppato un’attenzione e una sensibilità un minimo analitica non solo verso il grado cosmetico, ma altrettanto verso le strutture che sorreggono le logiche di progressione narrativa di un videogioco, il piacere di attendersi una rivelazione risulta così corrotto, ridimensionato. La scelta volontaria di rimettersi nelle mani di un racconto vasto ed esigente, proposto attraverso un media interattivo qual è il videogioco, viene ripagata con un’esperienza del racconto stesso dosata in modo dichiaratamente razionale e controllato. Dato un Rpg dotato di una storia latente in attesa di essere rivelata, e assodato il trigger pulsionale connesso al voler continuare a giocare per conoscerla e attualizzarla, la troppa consapevolezza dei modi strutturali che informano la progressione narrativa della stessa è da considerarsi letteralmente “in-formazione”, esattamente come affermato dal fisico David Bohm: un processo che effettivamente “forma” chi lo riceve. Ma visto che per funzionare ad arte la struttura schematica, logica e razionale di design che caratterizza un videogioco dovrebbe invece agire sottopelle, risultando quanto più mimetica possibile, essere informati da troppa consapevolezza esprime una criticità non ignorabile. Se il prevedibile schema di progressione narrativa lineare adottato da un gioco indie di una manciata di ore è irrilevante, sapere invece sin da subito cosa aspettarsi in un AAA di oltre 100 ore di gioco cambia le carte in tavola in modo drastico e totale.
Personalmente non voglio che la troppa coscienza che posso avere della logica granitica che informa la progressione narrativa di un videogioco diventi meccanismo esplicito al quale la mia voglia di narrazione fa appello per gratificarsi. Perché il rischio è proprio questo, più si metabolizzano i modi in cui una struttura narrativa progredisce, più diventa facile tendere a concentrarsi sui tali, distraendosi dalla specificità degli altri contenuti del gioco: fasi di combattimento, esplorazione rilassata e godimento estetico dello scenario, indugiare nella scoperta di porzioni periferiche della mappa (senza usare il trasporto veloce), analisi dei documenti fortuiti trovati, prendersi il tempo per studiarsi l'inventario e mercanteggiare...

III

Esiste infine un’altra questione che va ad aggiungersi alla summenzionata criticità. L'ascesa di livello che potenzia il giocatore, quando non accompagnata da una sfida adattiva, rende le fasi di combattimento semplici routine accessorie che - di nuovo - accrescono l'interesse a focalizzarsi altrove. Mass Effect: Andromeda non è un musou, ma quando si è potenziati a livello 60 con la difficoltà di gioco settata a Normale, e fra mod e oggetti rari il proprio fucile causa con un solo colpo 1700 punti di danno, sapere di dover affrontare un’armata di Kett per permettere alla storia principale di avanzare diventa qualcosa di fin troppo formale. Senza contare l'obbligo di avere sempre due alleati che combattono al proprio fianco, e che livellati al massimo, fra abilità passive di gruppo e altro, si trasformano in macchine da guerra biotiche e militari praticamente letali. Volendo dare un senso alle ore di vita spese in un genere di gioco (Action-Rpg) notoriamente molto esigente e vampiro nel risucchiarle, la diminuzione del sapore ludico che si verifica a causa della formalità del dover combattere finisce con l’indirizzare l’interesse verso il piano narrativo, alla ricerca di un senso di coinvolgimento più fondante. Ma se l'intensità stessa con cui si ricerca la rivelazione narrativa è inficiata dalla prevedibilità strutturale attraverso cui la narrazione si presenta, dove bisogna guardare per continuare a sorprendersi e provare massimo piacere nel giocare? Cos'è che diventa a quel punto un videogioco? Solo un prevedibile svelarsi narrativo che per avanzare abbisogna della formalità burocratica e accessoria delle fasi shooter? A prescindere dall'interesse che una storia scritta in modo esemplare può suscitare, non è forse così che si finisce col sentirsi dissoluti, per certi versi in colpa riguardo alle ore del proprio tempo-vita che sull'altare di una struttura esigente, logica, prevedibile ed esplicitamente razionale si è voluto sacrificare?
Ecco, magari tutto questo discorso concerne semplicemente il rispetto che alla fine si può avere di se stessi, come videogiocatori. E io di certo non voglio accusarmi né pentirmi di nulla, riguardo al tempo che dedico ai videogiochi.

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