venerdì 1 marzo 2019

Sui danni e sulla libertà stilistica nel trattare in Italia di videogiochi.







N.B. Nell'ottica di Ludenz quale progetto di convergenza crossmediale, quella che segue è la trascrizione in forma testuale - corredata di link e immagini - dell'episodio#2 di Monocast, il format di podcast di Ludenz basato su monologhi di riflessioni afferenti alla cultura del video gioco.
È possibile ascoltare l'episodio integrale qui.


"Questo secondo episodio di Ludenz Monocast nasce dall’accostamento di due personalità differenti che operano nel settore dei video giochi.
Tempo fa stavo cercando in rete un articolo di Matteo Bittanti di cui non ricordavo il titolo. Per chi non lo conoscesse Matteo Bittanti è uno scrittore, curatore, artista, editore e accademico. I suoi saggi, così come i suoi articoli sono apparsi su pubblicazioni dedicate alla tecnologia, al cinema, all'arte e ovviamente ai videogiochi, a partire da molte riviste cartacee degli anni ottanta. 
Volendo inquadrare un minimo il suo percorso, Matteo Bittanti è una figura molto interessata al rapporto tra arte e videogioco. La sua ricerca accademica lo ha portato, tra le altre cose, anche a curare una serie di festival qui in Italia, come il MILAN MACHINIMA FESTIVAL così come altri eventi in musei e gallerie d’arte un po’ in tutto il mondo.

Personalmente ho perso il conto degli autori da lui tradotti che ha presentato in pubblicazioni dedicate. La sua ricerca ha portato luce sul rapporto fra cinema e videogiochi, ad esempio. Dalla sua attività quale curatore e traduttore, ho letto saggi che mi hanno dato nuove prospettive riguardo la considerazione culturale del videogioco, e con cui – presumo – altrimenti non mi sarei imbattuto mai. Grazie ai suoi studi ho cominciato a ragionare in termini di Machinima, di Game Video Art, creando anche i video della serie Game Beyond Game sul canale YouTube di Ludenz. Non a caso Matteo Bittanti ha curato uno dei primi contributi critici mondiali sull’arte ispirata e basata sul videogioco. Ha aperto siti, blog con saggi critici, interviste… ha analizzato molte pratiche emergenti basate sui video games. Tra l’altro, a partire dai primi anni del duemila, oltre ad aver curato la prima antologia di game studies italiana, ha cercato di stabilire i Game Studies in Italia, sia come disciplina accademica che come campo di conoscenza autonomo. La collana editoriale Ludologica, da lui curata, è la prima serie italiana di libri dedicata all’analisi di video game, di autori e molti altri temi analizzati attraverso categorie che vanno dalla semiologia alla sociologia e vari altri settori critici. Senza dimenticare, oltre a questi e altri campi di attività, il suo coordinare un Master Universitario di Primo Livello in Game Design. Tra le altre cose ha anche fondato una casa editrice indipendente che pubblica volumi on-demand dedicati all'arte contemporanea, alla cultura digitale e ai media. Tutto questo Matteo Bittanti lo fa risedendo sia in Italia che in America.
Dicevo, tempo fa stavo cercando in rete un articolo di Bittanti di cui non ricordavo il titolo per esteso, e mettendo nella ricerca le parole “Bittanti” e “Ghost”, ecco che compare un link dal titolo “IL FASCINO DELLE PAROLE INUTILI E QUELL'ODIO INCOMPRENSIBILE PER LE COSE SEMPLICI” firmato Alberto Belli. 


Alberto Belli ha iniziato la sua carriera nel settore video giochi come giornalista freelance nel 2000. Ha lavorato come Redattore capo per Xbox Magazine e ha curato PlayStation Official Magazine, Game Republic, PSMania e altre pubblicazioni. Ha lavorato nella comunicazione e nella distribuzione per Leader, lanciando centinaia di giochi, tantissimi tripla A. È stato nelle pubbliche relazioni, Direttore delle pubblicazioni, Manager di Marketing e comunicazioni, e ha fondato studi indipendenti qui in Italia, tra cui l’ultimo Gamera Interactive. Insomma, Alberto Belli è uno che nel settore ha costruito una carriera, in Italia. Sa come piazzare prodotti, oltre che sviluppare, tenere su uno studio e insegnare. Da questo punto di vista, nel settore, è senza dubbio una personalità internazionale.

Ora, nel suo articolo - il cui titolo, ripeto, è - IL FASCINO DELLE PAROLE INUTILI E QUELL'ODIO INCOMPRENSIBILE PER LE COSE SEMPLICI – e che è stato pubblicato sia sul suo sito eldastyle, così come su shinymagazine.com – Alberto Belli tratta dell’articolo di Matteo Bittanti che andavo cercando, e che si chiama SPETTRALITÀ VIDEOLUDICA, pubblicato il 30 settembre 2016 sul portale - link idee per la tv.





Matteo Bittanti nel suo articolo tratta del fenomeno del Ghost, l’immagine registrata dell’ombra di un’auto di una partita passata che si sovrappone a quella presente. Bittanti scrive, come citato alla lettera nel suo articolo da Alberto Belli, 

"Il ghost produce un curioso anacronismo, un corto-circuito cronologico, una dissonanza epistemologica: presentificando una gara passata, giustappone due temporalità differenti, play e replay. Non si tratta tanto di un deja vu, quanto di un deja joué"

A me personalmente questa costruzione piace. Chiaro che se non si conosce il significato di “epistemologia” lo si va a cercare. Il termine “presentificare” mi piace altrettanto, il ghost che rende presente e attuale il tempo passato – ma con una accezione quasi inquietante riguardo al rivedere la propria auto come un’ombra, uno spettro, e poi il competere con la stessa, sovrapponendo il replay che proviene dal passato al play, il giocare nel momento presente (da qui le due temporalità). E poi il deja vu, il già visto, con il deja joué, il già giocato… È una costruzione della frase interessante, ripeto, efficace.

Nel suo articolo Alberto Belli critica il passaggio di cui sopra. Dice che in tre righe ci sono due parole inventate e due parole superflue. Afferma che non è il modo giusto di spiegare il Ghost nei racing games, e premette che non ce l'ha con Bittanti, anzi. Dice che negli anni ha portato alla luce tematiche interessanti. Però critica il suo stile. Trova il registro di Bittanti comico, e afferma che se l’idea è quella di divulgare, il fallimento è totale.
Poi tenta di far passare la sua riflessione come generata dalla convinzione di una certa categoria di gente, e scrive che 

Se si tratta (come qualcuno pensa) di dare un tono accademico al discorso videogiochi, siamo come quando si deve parlare della materia come di arte ad ogni costo.” 
In pratica ritiene l’espressione di Matteo Bittanti una forzatura mistificante.
E continua scrivendo 

Onestamente, se parliamo di spiegare cose al popolo, penso che partire dalla base sia sempre la soluzione migliore. Quando vai a scuola calcio ti fanno palleggiare e ti dicono che non devi mai fare i passaggi in orizzontale. Non cominci con la rovesciata. L'Italia è così: abbiamo le fiere per gli sviluppatori, senza avere l'industria dello sviluppo. Abbiamo i panel di gente che spiega cose, senza aver fatto cose. Abbiamo Bittanti che parla di dissonanza epistemologica, quando il videogiocatore medio non conosce la differenza tra un genere e l'altro, e il giornalista medio non sa usare la punteggiatura e coniugare i verbi a modo.

In pratica Alberto Belli, attraverso la sua esperienza nel settore, vuole far capire che ha tastato il polso dello sviluppo dei video giochi in Italia, della levatura intellettuale del giocatore medio, dei giornalisti, e quindi sapendo cosa è più opportuno per la comprensione culturale, per la formazione della gente e in genere per la Industry del Bel Paese, afferma che quello di Matteo Bittanti è uno stile che lo stesso non dovrebbe permettersi, o farebbe meglio a non permettersi, qui in Italia, quando si vuol parlare di videogiochi.



Infine afferma che forse è lui che ha, cito l’articolo, “un'idea di semplicità un po' diversa” e scrive: 

Quando insegno, mi piace vedere la gente capire quel che dico, non mi piace che si faccia le pugnette su quel che dico. Ho visto la solita inutile necessità – nell’articolo di Bittanti - di dare una dimensione al videogioco che non solo in questo momento non è necessaria ma è pure controproducente” 

In pratica Alberto Belli cerca di riportare ad una ragione di base, ad una necessità di esprimersi che in qualche modo sia in linea popolare riguardo, ad esempio, la comprensione più diffusa possibile, connessa alla cultura che si può avere del videogioco, connessa alla coscienza che si ha delle infrastrutture arretrate dello sviluppo economico della Industry italiana del videogioco, per certi versi. Un po' come se lui stesso fosse una sorta di cartina al tornasole dei tempi reali e strutturali, riguardo a ciò di cui l’Industry italiana ha bisogno. 
E parla quindi della fiera Milan Games Week, da cui arrivano – sto citando – 

i soliti millemila articoli tutti uguali che titolano "La riscossa dei videogiochi italiani" o ancora "L'anno degli italiani". Articoli che escono da che ho memoria, dove cambia solo l'elenco dei prodotti all'interno e l'entusiasmo di chi approccia l'argomento, ma senza sapere che in realtà non cambierà proprio una mazza e sicuramente non perchè c'è la fiera con lo showcase dove va gente che quei giochi non li acquisterà mai.

E infine sfotte apertamente lo stile di Matteo Bittanti, scrivendo:

Insomma: "L'approccio programmatico estrinseca la puntuale corrispondenza fra obiettivi e risorse in una visione organica e ricondotta ad unità, ipotizzando e perseguendo quale sua premessa indispensabile e condizionante una congrua flessibilità delle strutture". Questo è il mio pensiero, scrive Belli, maturato utilizzando il generatore di frasi inutili a questo indirizzo. Salvatelo che un domani se vi invitassero da qualche parte per uno speech, magari riuscite a darvi un tono anche se il tema è "Il ruolo del petto di pollo nella genesi di FIFA"



Nel leggere in particolare quest’ultima divertente uscita di Alberto Belli, c’è qualcosa che mi ha fatto riflettere. Non è tanto l’impressione iniziale che se ne può ricavare, e cioè che si debba per forza aver fatto esperienza come ne ha fatta lui, che bisogna esser pratici e aver realizzato cose, fatto un certo percorso, e le mille difficoltà, e aver prodotto e posizionato mille videogiochi come ha fatto lui – prima di potersi esprimere come uno vuole.

È più come se lui presumesse una posizione in qualche modo legata ad una visione, ad una certezza di verità che attraverso l’esperienza ha capitalizzato ciò che è più necessario qui in Italia riguardo allo sviluppo di una solida industria del videogioco.
Ma è proprio qui che si verifica il tentativo supponente – per certi versi - di presumere una certa vanità intellettualoide di chi si tira le “pugnette” dinanzi ad un certo linguaggio.
Perché tengo a dire questo, anche all’infuori di quanto ha scritto o intendeva far passare Alberto Belli. Perché la radiografia del Videogioco, non è solo e ovviamente la condizione della infrastruttura politica, economica e culturale di una particolare industry di una nazione. Così come non è solo l’esperienza maturata da un singolo individuo che deve barcamenarsi – fra meriti e difficoltà, e tanto di cappello, ci mancherebbe - fra quanto di farraginoso e scoraggiante presenta l’industria e lo sviluppo dei videogiochi – in questo caso - in Italia.
Ora, a parte che il campo d’interesse e di azione culturale di Matteo Bittanti non concerne il piazzare prodotti: non è un imprenditore, non possiede uno studio di sviluppo, e quindi l’accostare il modo in cui divulga o si esprime con altri ambiti d’interesse chiuderebbe già la questione. Eppure è proprio qui che il discorso va approfondito.



C’è un critico indipendente che seguo molto, si chiama Tevis Thompson, che in uno dei podcast in cui è stato ospite, parlando del suo modo di fare Game Critic, ha affermato:
Io non sono uno di quelli che vogliono sapere cosa si nasconde dietro i videogiochi e imparare tutto del loro processo di sviluppo.
Questa affermazione, per analogia, mi ha fatto riflettere. 

Essere nel game development non vuol mica dire essere al centro più importante di ciò che deve essere considerato videogioco. Ci mancherebbe. Così come avere esperienza nel produrre, sviluppare e posizionare video giochi sul mercato, per dire. Ora, a parte che ammetto di non aver giocato, in questo caso, i prodotti sviluppati da Gamera Interactive o dagli studi precedenti di Alberto Belli, e quindi non ho idea della loro qualità, che è l’unica cosa che per coloro che fanno Game Critic deve importare. Ma di certo non vado ad analizzare tali prodotti, la nazione o gli ambienti in cui sono stati sviluppati, il modo in cui esprimono stilisticamente la loro arte, le loro ideologie o altri aspetti critici che presentano, per decidere poi quanto utile o dannoso possa essere il lavoro di insegnamento in Italia di Alberto Belli rispetto a quanto i suoi studi hanno prodotto. Questo è un concetto che riprendo magari dopo, ma ciò per dire che se siamo qui per parlare di cultura, i percorsi che ruotano attorno al videogioco sono anche le istanze che si muovono parallele, attraverso, o che possono intersecare o meno il problema dello sviluppo riguardo una industry italiana florida del video gioco, ad esempio. Con Matteo Bittanti parliamo di accademia, che s’interseca con la ricerca, che s’interseca con l’arte, con l’insegnamento… e anche con il suo modo di esprimersi. E poi, articolo di Alberto Belli a parte, ripeto, chi lo dice che l’apporto di un Matteo Bittanti o del suo stile, visti gli ambiti culturali che coinvolge – dai musei, alle università, ecc.. - non possa magari risuonare o rimbalzare su contesti politici o persone aprendo a nuove attenzioni economiche, per dire. Ma lasciando perdere questa eventualità – perché non abbiamo dati per sapere se sono scenari possibili o se invece l’attività di Bittanti sarebbe un danno, ripeto – la questione è perché chiamare in causa pubblicamente l’espressione stilistica di altri e relazionarla allo sviluppo della cultura e della Industry italiana del video gioco.

Dunque.

L’articolo potrebbe benissimo essere nato come una reazione al fatto che Alberto Belli abbia paragonato il suo lavoro - e si sia sentito in qualche modo invaso - nello stesso campo di operatività culturale: l’insegnamento. Per intenderci, probabilmente ha visto un Matteo Bittanti che si divide fra America e Italia, snob e altezzoso e con i guanti bianchi mentre lui invece ha affondato le mani nude nella terra e se le sporca, qui in Italia, tipo. E da qui probabilmente nasce la convinzione, data la sua esperienza, che Bittanti sia controproducente, sia un male per coloro che non lo capiscono, e per la Industry italiana del settore in genere. E pertanto ha deciso, riguardo a Bittanti, di circoscriverlo. E di farlo anche in maniera diretta dal punto di vista iconografico, devo dire, perché su entrambi i suoi articoli - ha piazzato anche due foto belle grandi di Matteo Bittanti, in modo che sia pubblicamente identificabile. In uno di questi tra l’altro è presente anche un meme, di fianco l’immagine di Bittanti. Cosa assolutamente non necessaria, a mio avviso, e che svela proprio la volontà di circoscrivere una persona. Ora, a parte che dal punto di vista accademico riguardo alle mappature culturali del videogioco - fra gli aspetti interdisciplinari, i media e i game studies, il cinema, e gli orizzonti speculativi aperti, ecc… - l’attenzione che portano le due figure, sono proprio diverse, per certi versi lontane anni luce, sia chiaro. 

Ma sta di fatto che quando durante la Milan Games Week del 2017 mi hanno fatto notare che quell’uomo seduto lì era Alberto Belli, non mi sono avvicinato a lui per parlare del suo studio di sviluppo, per interessarmi ai video giochi e per scambiare con lui, come ho fatto invece con gli altri studi. Perché nel mio piccolo, anche se non muovo alcun capitale, e Ludenz è un progetto amatoriale indipendente totalmente ininfluente sulla Industry italiana del videogioco, mi sono reso conto di come io temo il modo in cui certe persone del settore possono porsi nei confronti altrui. Perché dopo aver letto i loro articoli, ed essermi fatto una idea della loro personalità, temo che queste persone possano non ascoltarti davvero, oppure possano aggredirti con i loro pensieri, o che le tue parole, il tuo essere lì a farti avanti, la tua posizione, la tua persona, ecco, sia già in qualche modo valutata o quantificata secondo determinate categorie, magari in termini opportunistici, di influenza o successo o utilità o danno per il proprio lavoro, per cui se non sei dentro certi segmenti di settore sei nulla, sei una cosa pregiudicata.
E questo è sbagliato da parte mia, perché in ogni caso equivale comunque a privarsi di momenti di confronto potenzialmente formativi con chi ha esperienza da vendere.



Ma lasciando perdere quest’aspetto personale. Io curo corsi di scrittura creativa presso un’associazione privata e devo iniziarne uno in una scuola pubblica. Il 60% dei miei corsisti, che a livello narrativo non ha mai scritto nulla di organico prima, subito dopo il mio corso viene pubblicato. Vuoi su raccolte di racconti, vincendo contratti di pubblicazione con editori, contest letterari o addirittura riconoscimenti internazionali. Perché dico questo? Perché di mio, io non ho mai pubblicato nulla. Leggo molto, tanta teoria, trasmetto altrettanto nei miei corsi, ma non ho contratti editoriali né pubblicazioni di narrativa breve o lunga all’attivo. Non ho esperienza personale di ciò che vuol dire scrivere un’opera e vedersela pubblicata. Ciò che ho scoperto è che se anche la gente viene rapita dai miei video promozionali, da come mi esprimo all’interno di questi contesti, sono i corsisti stessi che si assumono poi la responsabilità delle proprie scelte, quando decidono di pagare, di affrontare il corso e quando ne escono fuori. Chi lo dice quindi che l’utilità di un corso si verifica solo e soltanto se chi insegna ha fatto le stesse cose che va ad insegnare. 
Resta chiaro che fra un corso che insegna a scrivere in strutture private o in scuole come il mio, e uno di game design in una struttura istituzionale come l’università, per dire, ovviamente parliamo di numeri e ambiti normati in maniera totalmente diversa, ci mancherebbe. 
È chiaro che ci vogliono interventi strutturali, attenzioni politiche ed economiche per lo sviluppo della Industry Italiana del videogioco. È chiaro che non è “Se son rose fioriranno” qui in Italia. Gli studi che si svilupperanno dopo i Master e i corsi di Game design dovranno di certo trovare poi le modalità più congeniali per crescere e piazzare i loro lavori, ma perché mai dovrebbe essere lo stile di Matteo Bittanti a fare danno? Perché presumere o azzardarlo partendo da questo?
Perché se siamo sul piano del “Conta solo chi ha fatto cose”, “oppure i corsi servono solo se chi insegna ha fatto cose, sennò non hanno senso di esistere”, allora espandiamo il concetto e parliamo di queste cose fatte. Azzardiamo che non si deve seguire l’insegnamento di… Alberto Belli di Gamera Interactive o chi per lui, se i prodotti che ha voluto piazzare non sono nulla di che, se esprimono un’arte del videogioco che è un inutile, un more of the same, e quindi vuol dire che se chi ne è a capo non è riuscito a vedere quanto fossero trascurabili, allora non è in gamba, non dovrebbe insegnare nulla qui in Italia, non è un esempio da seguire per piazzare prodotti che poi sono nulla di che. Insomma, vuol dire che non ci sa vedere lungo quale imprenditore nell’assemblare un team di successo, e quindi è una figura dannosa per la Industry italiana del videogioco perché la svaluta, ne restituisce una immagine non lusinghiera a livello globale, per dire. Ripeto, questa è ovviamente una provocazione, io non ho esperienza delle produzioni dello studio di Alberto Belli o di altri studi di sviluppo italiani, e di certo non è necessariamente il massimo successo e non sono questi i parametri su cui ci si deve basare per stabilire se uno è adatto o è utile all’insegnamento o meno.

Ma resta il fatto che un articolo pensato idealmente per mettere in guardia le persone che s’iscrivono ad un Master od un corso di game design universitario o quel che sia – solo perché l’autore dell’articolo presume che l’insegnamento didattico di una singola persona, o della gente che lui chiama a insegnare, possa gettare fumo negli occhi di chi paga e crede in quello che fa, possa essere controproducente e fare danno perché è snob, chic e intellettuale il modo in cui questa singola persona divulga o si esprime stilisticamente, be', per me non è solo pretestuoso, ma molto, molto viziato. 

Ma è anche questo ciò che genera – secondo me – un orientamento molto carriera-centrico in qualche modo, che tende cioè a rimarcare la capitalizzazione del proprio percorso, la propria esperienza di settore per farla assurgere a verità pragmatica totalizzante. È questo modo di pensare che poi s’erige in qualche modo a faro e genera un “alto” e un “basso”, o un “necessario” e un “non necessario” discriminatori nella concertazione culturale possibile di chi opera nel settore videogioco, così come ovviamente di tanto altro. E se sento di volerne parlare, è perché credo sia – non voglio dire un vizio diffuso, spero - ma di certo un esempio triste, che squalifica anche una potenziale cultura globalmente intesa del videogioco. Una cultura che deve essere libera e garantita in qualunque forma di merito voglia esprimersi all’interno di strutture istituzionalizzate, e che possa contenere in egual misura i Matteo Bittanti e gli Alberto Belli e i loro stili espressivi, le loro didattiche, i loro apporti, le loro diverse personalità, senza timore che si calpestino i piedi o che facciano alcun danno – fino a quando non sarà possibile, semmai sarà oggettivamente possibile, accertarlo. E io voglio proprio vedere e sono curioso di sapere chi sarà in grado di investirsi di tale ruolo e di accertarlo."

Luigi Marrone


2 commenti:

  1. L'articolo è interessante ed istruttivo, complimenti a Luigi Marrone.
    Trovo ingegnoso il termine "presentificare, appropriatissimo per il video in cui la macchina rossa gioca con il suo fantasma!

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  2. “Presentificare” piace molto anche a me :)
    Grazie mille come sempre per l’attenzione preziosa, Maria.

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