lunedì 22 aprile 2019

Game Critic #1 - Paure, incapacità e analfabetismi emotivi della critica videoludica italiana.



N.B. Nell'ottica di Ludenz quale progetto di convergenza crossmediale, quella che segue è la trascrizione in forma testuale - arricchita da link e immagini - dell'episodio#3 di Monocast, il format di podcast di Ludenz basato su monologhi di riflessioni afferenti alla cultura del video gioco.
È possibile ascoltare l'episodio integrale qui.

"Questo terzo episodio di Ludenz Monocast può essere in realtà definito una prima puntata. Si tratta di fatto di un monologo diviso in 3 parti, dato che affronta 3 diverse declinazioni dello stesso tema: la critica videoludica.
Nell’ideare questo Monocast, l’interrogativo principale è stato chiedermi quale poteva essere l’argomento che poteva risultare più utile, o idealmente necessario trattare, riguardo uno dei temi che ruotano attorno alla passione di molti per il videogioco.
Se sono giunto alla critica di video giochi è stato perché negli anni, durante la mia esperienza soprattutto quale lettore di critica videoludica, è come se vi fosse sempre stato qualcosa che la stessa avesse tentato di tenermi nascosto. Mi riferisco ad una sensazione, che mi si è presentata - e finalmente razionalizzata in modo chiaro - dopo aver letto diverse analisi critiche dell’opera indipendente sviluppata dallo studio Friend & Foe, dal titolo Vane
Avevo finito di rielaborare gli appunti presi durante le sessioni di gioco, dopo averlo completato due volte, in vista di registrare la mia videoanalisi per Ludenz. L’esperienza di Vane mi aveva molto colpito. L’avevo trovata pregna di senso, a tratti impressionante. Il minimalismo, l’attenzione e la calma esplorativa che richiede, la sfida interpretativa, la complicità che ero riuscito a sentire e poi a stabilire con l'opera grazie alla sua narrazione implicita, mi avevano proiettato in modo naturale oltre i suoi problemi tecnici, i problemi di camera o un bug che mi aveva costretto ad affrontare una sezione dall’inizio. 
Per non parlare dei vari sottotesti che vi avevo rintracciato, dalle possibili interpretazioni dei suoi aspetti più metaforici - la gestione del potere, il controllo di massa, nonché l'eventuale critica sociale a cui la narrazione implicita di Vane si presta e s'apre. Il mito del Diluvio, poi, il disegno di una iniziazione, di un rito di passaggio, la memoria cosmica e molte altre istanze antropologiche e mitologiche varie.

Così, leggendo alcune analisi presenti sulla Rete a partire dallo stesso giorno di pubblicazione del gioco, la prima cosa che ho constatato è stata come quasi tutta la critica fosse risultata viziata dall’aspettarsi una cosa diversa, da Vane. 
Ciò di cui mi sono subito reso conto è stato come, nel suo fomentare alcune precise aspettative attraverso trailer e gameplay di gioco, un certo immaginario videoludico personale e collettivo aveva lavorato ai fianchi del critico e del giocatore. Veniva rilevato come l’iniziale libertà che il gioco propone durante le sezioni di voli fosse una chimera. Come la trasformazione da volatile a giovane essere umano rallenta l’azione e focalizza i puzzle in ambienti sinistri e oscuri dove le sessioni di volo in spazi aperti arrestano il loro incanto. Insomma, molte critiche si scagliavano contro il dover restare confinati in sezioni platform rallentate da un level design che toglie respiro e obbliga alla sua risoluzione. Ed è vero, Vane spezza così un ritmo, una sorta di tacito accordo mai stabilito, ma per il quale, ripeto, s’era creduto che qualcosa dovesse andare in un certo modo.
Mi sono quindi ritrovato a leggere di pretestuosità, di "velleità" o "vanità" – per assonanza col titolo di gioco, Vane, che dal punto di vista semantico lessicale, con la vanità non c’entra nulla. Ma questo è un brutto vizio di chi fa critica, quello cioè di titolare i paragrafi di una recensione con assonanze e giochi di parole, perché tanto, alla fine, visto che si sta analizzando cosette leggere, i "videogiochi", anche la critica va bene che sia all’insegna del ludico, del giocare. E vabbè.



In ogni caso, mi sono ritrovato a leggere svariate recensioni italiane di Vane. Ho letto di chi s’interrogava su quanto bisogno vi fosse di creare una storia in cui si viene gettati in un mondo sconosciuto, senza sapere cosa è accaduto. Ho letto di chi si chiedeva che bisogno vi fosse di riproporre, parlando di titoli indipendenti, una formula legata alla troppa libertà che conduce al disorientamento del giocatore. Chi affermava che gli sviluppatori indie con una direzione artistica ispirata propongono significati esistenziali criptici per fare i "finti impegnati", sperando che la gente abbocchi. C’è chi affermava che in Vane non esistono significati metaforici, chi invece accennava al fatto che il gioco vuole mettere in risalto i principi utilitaristici dell’animo umano, lo sfruttamento, la ricerca del potere che rovina l’uomo, ma premettendo – si sa mai - che tali interpretazioni personali erano solo forzature.
Quindi ho letto di recensori della stampa specializzata che, parlando dei problemi tecnici del gioco, hanno portato avanti il loro lavoro critico tirando in ballo lo studio di sviluppo, il fatto d’essere composto da un piccolo gruppo dalle risorse limitate, che un elemento del team aveva lasciato il progetto sul più bello…



Ecco, è da questo punto che voglio cominciare. Dal fatto fatto cioè che tendenzialmente questa cosa, se parliamo di critica del videogioco, è da considerarsi una grande, enorme ingenuità. Molte delle recensioni di Vane partono dal presupposto che le promesse ingenerate dai trailer sono state disattese. Dal fatto che molti si aspettavano un gioco diverso, fomentato da un certo immaginario di libertà interattiva, tra un apocrifo prodotto di Fumito Ueda tipo uno Shadow of the Colossus aereo e un ICO, per intenderci. Poi il gioco viene pubblicato, l’aspettativa viene contrariata, e la disillusione scatta repentina. Qual è la conseguenza di tutto questo? Che la critica videoludica, mettendo sul piatto aspetti metaludici, e in primis ciò che ci si aspettava l’esperienza avesse dovuto offrire, soffoca il videogioco, non lascia respirare un artefatto videoludico quale opera autonoma, qualcosa che andrebbe cioè analizzata per ciò che offre e presenta in modo compiuto, per sé. 
E ne ho lette davvero tante, di cose imbarazzanti. Ho letto che se in Fumito Ueda l’indecifrabilità è “giustificata”, per Vane è solo un alibi dietro cui nascondere la propria pochezza di idee. C’è chi ha trovato lo spaesamento del gioco diverso da quello originariamente preventivato dagli sviluppatori – come se sapesse esattamente ciò che gli sviluppatori volessero ottenere. C’è chi, ripeto, si è lasciato influenzare dal titolo, Vane, per tacciare l’esperienza quale “inno alla vanità”, suggestionato dall’assonanza che ripeto, col significato della parola italiana non c’entra nulla. 
Ho letto poi un critico lamentarsi del fatto che è sbagliato scaraventare all’inizio il giocatore senza direzioni in un’ambientazione da incubo. Ho letto qualcuno affermare che avrebbe valutato diversamente il gioco se Vane fosse venuto fuori da uno sviluppatore alle prime armi. Per intenderci, parliamo di un mix di lamenti e pretese che disegnano una certa volontà capricciosa da giocatore viziato, come se gli autori non fossero liberi di proporre la propria visione, o il giudizio finale di merito riguardo un’opera d’arte dovesse tenere di conto delle condizioni di salute dello sviluppatore, tipo.



Esiste un motivo per cui trovo interessante – in questo caso, ma potrebbe essere esteso a molti altri esempi - analizzare Vane. Perché si tratta di una di quelle opere che canalizzano una incomprensione di base: mi riferisco al credere che un’esperienza videoludica possa essere sempre analizzata – o tendenzialmente giustificata - da un punto di vista impersonale. 
Questo cercare motivi fondanti verso una propria disillusione, prendendo informazioni o chiamando in causa l’autore e le condizioni dello sviluppo, fa di Vane l’esempio perfetto di una critica in difficoltà, che per esprimersi si rivolge all’esterno evitando così di articolare il proprio rapporto interiore con l’esperienza di un videogioco.  
Riguardo l’opera dello studio Friend and Foe, ho il sospetto si tratti di una di quelle esperienze che non è stata rispettata a causa di qualcosa che va oltre il tempo che NON le si è concesso per interpretarla. L’ascolto interiore, si sa, richiede cura e attenzione, ed è fuori dubbio che non è possibile approfondire cose con le quali non si ha avuto il tempo necessario per stabilirvi una complicità. In genere, poi, quando l’esplorazione e l’osservazione di un video gioco non si combinano a un pensiero personale profondamente riflessivo o deduttivo, ne nasce un vizio di forma, dal punto di vista critico. E così, dovendo pur produrre qualcosa, e risultando però frustrati dalla mancanza di contenuti personali nel proporre una interpretazione che possa sfiorare un minimo di autoanalisi verso ciò che il gioco ha provocato alla propria interiorità, ecco che si ripiega e ci si accanisce sull’oggettivo, sulla tecnica. Ecco quindi la telecamera instabile di Vane durante il volo, le compenetrazioni poligonali, i checkpoint sbagliati, le collisioni con lo scenario, la durata effimera rispetto al prezzo di lancio… Per intenderci, Vane è una di quelle opere per cui esistono interi parametri di valutazione culturale che la critica non mette in gioco, e che i lettori non leggeranno mai. Tutto questo perché non le si concede il tempo di risuonare nella propria interiorità, non le si garantisce una voce rispetto a ciò che possono significare.

Ora, ripeto, è facile presumere che i motivi per i quali si diffonde a macchia d’olio l’idea di un’esperienza come Vane quale prodotto dal valore ambiguo, se non di scarso valore, siano dovuti al fatto che la maggior parte di coloro che si è espressa con la propria critica non abbia avuto il tempo di analizzare, di giocare tutta l’opera, o non abbia sentito l’esigenza di rilasciare interpretazioni e di andare in profondità con una narrazione personale.
Per dire, c’è stato addirittura chi – e parlo di portali conosciuti – ha riportato informazioni errate. Mi riferisco in particolare ad una struttura nel deserto da distruggere durante il gioco, per la quale un recensore ha affermato che le banderuole segnavento che la compongono devono trovarsi in una posizione precisa, e che è stato costretto a ricaricare dall’inizio e avere fortuna per superare tale puzzle. Io che ho portato a termine il gioco due volte, con calma, posso affermare che non è vero, che bisogna solo scovare un determinato numero di postazioni di altri volatili sparsi nello scenario, i quali indirizzandosi nei pressi della struttura in questione, e richiamandoli per raggrupparli, permettono poi al giocatore di farla crollare. 
Ma tralasciando queste inesattezze critiche, queste disinformazioni figlie di un’attenzione che è stata chiaramente votata agli aspetti meccanici del gioco e probabilmente orientata a portarlo al termine per uscire allo scadere dell’embargo, per capirci, le domande pressanti che una esperienza come Vane genera sono queste: 

- Si pensa mai che il non saper avanzare considerazioni personali nell’interpretare ciò che propone un videogioco, equivale a non saperlo giocare?
- Si riflette mai sul fatto che il non saper giocare a un videogioco può equivalere anche al non saper esprimersi e intepretare la narrazione implicita di quel videogioco? 
- Si pensa mai che la richiesta di interpretazioni da parte del gioco sia un gioco in sé, voluto e deciso autorialmente a monte, e che quindi non è un "espediente da furbetti" ma elemento integrante e centrale del valore dell’opera, che in fase di critica non si può quindi tralasciare?

Io credo che la stragrande maggioranza dei giocatori che poi fa critica videoludica e si esprime su quanto ha giocato, è vero che non va in profondità, ma dentro se stessa. 
Ho imputato questa istanza ad una sorta di analfabetismo emotivo – così l’ho preteso chiamare - riguardo al rapporto che s’instaura con i video giochi – e che a sua volta è relativo alla difficoltà di esprimersi e rielaborare l’esperienza intima che si genera a contatto con loro. Parlo proprio di una relazione con i video giochi per cui il timore, l’incertezza, l’ambiguità, l’incapacità infine di esprimere ciò che davvero si prova, di scoprirsi e di mettere in gioco un po’ di autoanalisi confrontandosi con se stessi, è qualcosa di prevalente nella critica videoludica, e lega con più forza i giocatori gli uni agli altri rispetto alla prospettiva di ritrovarsi soli con i propri giudizi, con la eventuale verità delle proprie risultanze interiori, rispetto ad un’opera, ad un artefatto culturale.
Perché chiamo in causa le emozioni? Perché sono la chiave di lettura critica che può rendere davvero cosciente di sé il giocatore. Perché rappresentano una realtà intima che può fare luce sulle influenze subite dalla socializzazione della critica del videogioco. E quindi contrastarle.
E qui mi spiego meglio e apro una riflessione.



Quello che dopo anni ho notato in qualità di lettore, è che disponiamo in genere di una critica di video giochi superficiale - non perché formalmente non sappia esprimersi, sia chiaro, ci sono ottime penne in giro, anche solo in Italia - ma perché il critico NON mette al centro, e in un modo aperto e arreso, il proprio considerarsi qualcuno che questa critica la vuole affrontare, ed espandere. Mi riferisco ad una critica che non riesce a liberarsi dalle inibizioni e dalle tentazioni di una certa idea di critica socializzata, un approccio cioè sociale che cerca sempre, anche inconsciamente, di tenere di conto gli altri, cosa scrivono, i voti finali che potrebbero emettere, e cosa gli altri penserebbero della propria espressione.
Perché parlo di emozioni? Perché rielaborare la propria emozione, ed educarsi ad argomentarla, può posizionare il dibattito in ambiti culturali diversi, più ampi. Perché l’attitudine generale di una critica collettivizzata è divenuta col tempo massificante, votata ad allontanare il giocatore da se stesso, dall’umano, per ricondurlo appunto ad una collettività che lo fa sentire incolume, salvo.
Con questo non voglio scomodare tutti i possibili modelli di riferimento con cui fare critica, dagli orientamenti dei giornalisti, agli accademici, agli approcci umanistici, sino a giungere a quelli che emergono dagli appassionati. Non mi riferisco, per intenderci, all’espressione della critica di video giochi partendo dalla sua provenienza da diverse preparazioni culturali. Il punto su cui voglio soffermarmi è un altro. 
Quando non si è capaci di avanzare una interpretazione o una autoanalisi, o ci si sente a disagio nell’analizzare i motivi profondi per cui qualcosa piace o meno, qualcosa che possa aprire cioè una finestra intima e senza protezione verso i propri valori, verso il prossimo, è facile poi estromettere l’elemento sincero umano. 
Scalzando l’espressione emotiva, e la sua elaborazione ed espressione in termini di critica videoludica - in questo caso - si evitano le possibili riflessioni culturali che possono emergere, vale a dire ciò che più intimamente suscita - nel giocatore - un videogioco. 
L’analfabetismo emotivo, l’incapacità di tradurre e articolare ciò che accade a contatto profondo con una esperienza videoludica, può generare esaltazioni, aspettative, apologie, difficoltà e imbarazzo nel trasmettere i propri pensieri – tutto questo a danno della comunità culturale e del videogioco che si sta giocando.
È da questa istanza ormai diffusa, socialmente accettata, che ripeto, si finisce poi con l’accanirsi sulla tecnica, sulla telecamera e il frame rate e tutti i possibili stereotipi analitici - che è quanto viene proposto dalla maggior parte dei contributi critici al mondo, dato che sono questi gli spazi più sicuri e collettivi su cui adagiarsi. Per tale motivo le recensioni e i voti tendono a somigliarsi, se non ad essere apertamente uguali. È da questo punto di vista che la maggior parte di coloro che fa critica di video giochi non può pretendere di valorizzare né di dare dignità al dibattito sui videogiochi. Perché l’immagine che viene diffusa, riguardo alla videoludica, è quella di una cultura inoffensiva, che fa bene a restare a testa bassa. Una immagine cioè che non la fa elevare. Parliamo di quella medesima cultura che poi fa dire anche a chi lavora nel settore, a capo di uno studio di sviluppo, “Alla fine sono soltanto videogiochi.”

Ma esiste qualcosa di ancora più grave, di cui ho avuto esempio proprio con Vane. Nello sfacelo di recensioni negative lette, ho puntato l’attenzione anche ai commenti sul gioco. Scavallando tutte le indignazioni connesse ai problemi tecnici, il frame rate, la durata dell’esperienza, ecc… io volevo cercare chi avesse avuto come me un giudizio critico molto positivo dell’opera, fosse solo per non sentirmi solo. E non ho dovuto spingermi lontano. Mi è bastata la seconda recensione consultata per imbattermi nel commento molto particolare di un utente. 
Con questo premetto e specifico che il problema non sono gli utenti che leggono una recensione molto negativa e, allineandosi a chi scrive, in calce all’articolo commentano che il gioco non lo acquisteranno mai. Questo è un circuito logico, che vive di riflesso, e che è matematico che venga a generarsi. Il problema è chi nei commenti di una recensione molto negativa si esprime positivamente, o vorrebbe farlo, perché a differenza di altri ha trovato un senso pregnante in ciò che ha giocato. In questo spazio pubblico, democratico e culturale che comunque si genera nel campo di discussione dei commenti sotto un articolo, questo utente di cui ho letto, per farla breve, comunica in sintesi una sua interpretazione, una lettura personale del gioco. Dedica soltanto una riga alle magagne tecniche, e afferma che Vane gli è piaciuto davvero tanto. E quindi parla di memoria della materia siderale, di guerra tra caducità e immortalità… e insomma, avanza brevemente la sua interpretazione del gioco.
Lasciando ora perdere che dopo giorni dalla pubblicazione del commento, non c’è stata risposta da parte né dell’autore della recensione, né da altri utenti. Ma la cosa più triste è stata leggere, alla fine del suo commento, il suo inviare – letteralmente - “sincere scuse” per il suo intervento, per aver avanzato cioè una propria interpretazione personale. È questo forse l’immenso danno culturale massimo che negli anni e in modo diffuso la critica videoludica ha fatto. Questo ingenerare una auto-limitazione nel giocatore, quasi un senso di colpa rispetto alla sua pubblica espressione, alla propria libertà e capacità interpretativa. E chi l’ha generata, questa auto-limitazione, questo auto-controllo, se non la mentalità e i limiti culturali di chi fa critica, l’incapacità di chi scrive di videogiochi, e che poi si riversa e influenza la possibile concertazione culturale del videogioco? 
Stiamo freschi a voler difendere i videogames o la nostra passione dagli attacchi che provengono dall’esterno. Se un utente giunge a scusarsi del proprio intervento nel campo dei commenti di uno dei principali siti italiani di videogiochi, se un giocatore giunge a sentire di doversi pubblicamente scusare per aver voluto condividere la libera espressione delle proprie interpretazioni di un videogioco, vuol dire che qualcosa, globalmente, nel tempo, è andato davvero storto nella cultura della critica del videogioco. Quelle scuse sono un mero riflesso di debolezza, il risultato a cui hanno condotto le imbarazzanti deficienze strutturali con cui si è sviluppata una certa idea di critica del videogioco.
Quelle scuse vogliono dire che è il critico, è il giocatore che vive all’interno di chi fa critica ad avere problemi, in un certo senso ad aver fallito. È lui il ruolo di riferimento culturale che dovrebbe ispirare e allargare gli orizzonti del dibattito, ma che evidentemente, barricato nel suo pensiero critico socializzato, non si è assunto questa responsabilità mai. 
Perché non la sente, questa responsabilità. Perché sta attento a proteggersi, a evitare per quanto più possibile il confronto. A risultare sempre corretto e soprattutto innocuo affinché possa solo tranquillizzare ed essere tranquillizzato da chi lo legge. Perché i lettori che commentano il suo articolo li lascia a sbranarsi nell’arena in fondo al suo pezzo, fra di loro. Perché non ha tempo e c’è il prossimo gioco da valutare. Ma se è così che stanno le cose, allora qual è il ruolo della critica di video giochi? Quale ruolo ha un critico, e cosa diavolo ci sta a fare, lì, con la sua passione, nella sua posizione culturale? 
Non esistono giustificazioni, per questo. Non si cresce, non si evolve di nulla, in questo modo. È così che non si va avanti mai. 
È così che si è generata questa forma - in un certo senso – di disonestà socializzata verso se stessi e gli altri. È così che si sviluppa una forma di ipocrisia, certo, perché nessuno, a ben vedere, anche se non lo ammette, alla fine sente di essere coerente con la propria cognizione più profonda del giocare, con l’impegno che una vera critica reclama rispetto al rapporto che instaura con un determinato videogioco. E così che poi si diventa volubili, e si accoglie con diffidenza chi invece si espone apertamente, e porta i giocatori, quando lo fanno, a scusarsi. Mi riferisco proprio ad una sorta di vigliaccheria della critica socialmente diffusa, per la quale, anche se nessuno, di nuovo, lo ammette sinceramente, il non aprirsi troppo è in fin dei conti considerato giusto, è considerato – cosa peggiore – tutto quello che ai videogiochi in fondo si può riconoscere e concedere, tutto quello che – appurati certi loro limiti intrinseci - si pensa possano meritare. E nella incapacità di trovare e inscriversi in un orizzonte critico più vasto, di scovare un senso esistenziale più fondante rispetto al videogioco e al proprio giocare, tutto questo spiega come si finisca poi col dirigersi naturalmente e accanirsi verso elementi e difetti tecnici esterni, scaricandovi ogni responsabilità personale e di ruolo culturale. 
E così ci si scaglia contro il Vane di turno, concentrandosi sui problemi tecnici e sull'avanzare accuse riguardo alla cripticità dell’opera quale scelta volontaria da "furbetti" da parte dei suoi sviluppatori. E in questo modo si evita la responsabilità di affrontare se stessi in qualità di critici, e ci si salva dall’ammettere la propria deficienza e ignoranza, intese quali incapacità culturali di confrontarsi con l’opera e interpretarla. Una interpretazione a cui il videogioco chiama nel non voler essere considerato solo un’accozzaglia di dati e tecnologia, bensì prodotto culturale.
L’ambiguità nel criticare, interpretare e pronunciarsi su titoli come Vane è l’ambiguità culturale della critica videoludica socializzata italiana.
Ecco quindi che fare  Game Critic dando fondo alle proprie risorse dovrebbe passare per uno scoglio da affrontare: quello di fidarsi di sé stessi quando ci si apre senza protezioni agli altri, al fine di non avere paura di chi leggerà. Chi teme il disaccordo è un pessimo critico. Non ci si può considerare critici se si teme ciò che gli altri possono pensare, scrivere in un commento, o dissentire apertamente. È proprio fuori questione.

È da questo punto di vista che la critica dovrebbe essere un momento di confronto con se stessi, prima che con i lettori. Dovrebbe avere un significato a tratti spericolato contro quanto viene personalmente metabolizzato come innocuo, normale e rassicurante – se vuole davvero farsi contributo che arricchisce il dibattito sul medium in generale. Io sostengo che se si ama il videogioco, e ci si vuole pronunciare per il videogioco, bisogna vincere la propria paura socializzata nell’esprimersi intimamente per dedicarsi ad un lavoro culturale: quello di sfidarsi, educarsi, impegnarsi ad affrontare il coraggio di dire ciò che si pensa davvero, ciò che nasce davvero dopo l’impatto e l’esperienza con un determinato videogioco. Il coraggio di affrontare la propria difficoltà a elaborare e articolare una propria narrazione, cominciando proprio dallo scenario emotivo che genera l’esperienza del videogioco. 
Anche a costo di pronunciarsi contro la propria passione, ripeto, questo è qualcosa che bisogna fare. Perché il timore di stroncare qualcosa che si ama, a causa dei buoni sentimenti che - si crede - bisogna sempre nutrire per difendere i prodotti che incarnano la propria passione, viaggia di pari passo con la paura di esprimersi al pensiero di andare contro la cultura critica massificata. E in entrambi casi, questo trasforma la passione in apologia. Qualcosa che fa molto male, dal punto di vista culturale, al videogioco.

Ho preso Vane, come esempio, ripeto, ma il discorso non cambierebbe con altri titoli. La maggior parte delle recensioni, quelle della stampa specializzata così come quelle libere degli appassionati, restituiscono alla fine una “sensazione tecnica” del gioco. Qualcosa che girando su se stessa finisce sempre con l’inquadrarsi fra i “consigli per gli acquisti” – come volgarmente alcuni la chiamano – che la critica specializzata per contratto deve produrre. Mi riferisco ad un vuoto critico, dentro. Un vuoto d’anima, se si vuole, che tralascia l’elemento intimo, personale e umano. Quello che attraverso una potenziale rivelazione, dalla interiorità di un uomo ad un altro, potrebbe invece generare un contatto che va oltre la tecnica, la durata di una esperienza o le interpretazioni di superficie che questa può trasmettere. Una rivelazione che passa anche e soprattutto attraverso l’emozione e la decodifica della stessa, e che può evolvere il rapporto che l’uomo può stabilire con se stesso anche attraverso il videogioco. 
Ma questo sarà trattato nella prossima puntata."

Luigi Marrone

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