domenica 7 luglio 2019

Game Critic #2 – Pretese, psicologie e rigidità dei giocatori che criticano la critica di videogiochi



N.B. Nell'ottica di Ludenz quale progetto di convergenza crossmediale, quella che segue è la trascrizione in forma testuale - arricchita da link e immagini - dell'episodio#4 di Monocast, il format di podcast di Ludenz basato su monologhi di riflessioni afferenti alla cultura del video gioco.

È possibile ascoltare l'episodio integrale qui.

"Nella prima puntata di questa trilogia di episodi dedicata alla critica di videogiochi, ho trattato del ruolo culturale del critico di videogiochi. Questo secondo appuntamento sarà speculare al precedente, ponendosi però dal punto di vista dei giocatori che leggono e criticano la critica videoludica. 
Credo che il punto di vista dei giocatori, degli appassionati del videogioco, sia altrettanto importante quando si vuole affrontare un discorso culturale sulla Game Critic. E con questo mi riferisco proprio ad una certa idea culturale che si è sviluppata - e di conseguenza è stata metabolizzata - della critica videoludica oggi. 

Al fine di avanzare una riflessione personale mi avvarrò di alcune considerazioni pubbliche rilasciate in rete da due persone, vale a dire due giocatori che esprimendo una propria idea del ruolo e delle modalità espressive di chi fa Game Critic, finiscono col fornire contributi che reputo significativi, per certi versi sintomatici. 

Il primo di questi contributi proviene da un editoriale dal titolo “Perché la stampa videoludica italiana è morta (o comunque morirà presto)”, firmato da Claudio Todeschini e pubblicato il 30 agosto 2018 su www.teamcrimine.it. 


Uno degli utenti che hanno commentato l’articolo di Todeschini scrive:

"Sarò molto schietto e diretto nel dire le cose come stanno dal mio punto di vista: vi siete montati la testa per una cosa che non esiste. La stampa specializzata videoludica? Fa ridere solo al pensiero, ma non per la qualità intrinseca delle recensioni/analisi o della mole di lavoro dietro, ma per lo scopo. 

Ma voi sapete CHI sono i videogiocatori? Sono persone comuni che vogliono giocare per DIVERTIRSI, vogliono svagarsi (e ci metto dentro anche i videogiocatori occasionali). Quanti di questi si mettono a leggere recensioni o articoli? L'1%? Qui non si tratta di politica o di altro che, per forza di cose, attira l'interesse di tutti perchè una notizia ti può cambiare la vita e devi tenerti aggiornato su cosa ti accade intorno. Uno che vuole comprare un gioco, guarda se è consigliato o no in base a un numero o a un pollice in su, non sta lì a leggersi i pipponi su bug, grafica, longevità e ca**ate varie. E poi, anche chi si mostra un minimo interessato, sapete cosa scopre? Che dietro tutti questi siti ben impaginati con tanti articoli di gente che sventola una esperienza ventennale nel settore, c'è sempre l'opinione di chi scrive. Cosa me ne faccio della opinione dello scrittore? Anche io ne ho una, e se voglio leggere opinioni sui giochi vado su Steam che sono molto più sincere e dirette senza tirarmi in mezzo un Wall of Text di 2000 parole."

Ecco, voglio partire da questo commento. 

Esiste un libro che secondo me esemplifica molto l’atteggiamento culturale di chi critica la funzione dell’analisi critica di un videogioco. Il libro si chiama Il secondo io, della scrittrice Sherry Turkle – studiosa di Media al MIT, il Massachussets Institute of Technology. 


Sherry Turkle studia la psicologia delle relazioni dell’uomo con la tecnologia, e più precisamente l’incontro tra la macchina e la vita psichica umana. Perché scomodo la studiosa in questo caso? Perché credo che guardare alla cognizione che si ha della Game Critic attraverso le relazioni che gli uomini stabiliscono quando interpretano un programma per computer, un videogioco, sia un buon punto di partenza per avanzare una riflessione circostanziata. 

Per Sherry Turkle, il modo di un individuo di rapportarsi all’ambiente di programmazione è flessibile, è un’apertura nel suo stile cognitivo, nella sua personalità. Per lei ha una utilità diagnostica. Il capitolo 3 del suo libro, titolato “Il bambino programmatore”, è un capitolo che secondo me evidenzia in modo chiaro le distorsioni culturali riguardo le funzioni della critica videoludica.

Sherry Turkle analizza bambini dai quattro agli otto anni, età in cui la studiosa afferma si forgiano le categorie fondamentali con le quali dare un senso alla interpretazione del mondo. E distingue quindi due categorie psicologiche: 
1) Il tipo rigido, per il quale il rapporto con la macchina è concettuale, astratto, basato sulla chiarezza e l’imposizione della propria volontà. Il computer in questo caso è visto come un oggetto, e la preferenza di questo tipo psicologico è per il formale. 
2) Per il tipo morbido invece è l’esatto opposto: esiste il dialogo, l’identificazione libera, aperta e creativa con l’oggetto. 
La paura del tipo rigido è proprio quella di non avere il controllo. Nel suo caso la libertà di interpretazione non-formale altrui è sentita come una pretesa di dominio, qualcuno che sfugge al suo controllo, al punto che ne va della propria identità. Va da sé che la possibilità di arrivare nella profondità della costituzione emotiva è sentita come minaccia, una minaccia alla oggettività. 

Detto questo, passo ad un altro commento di un lettore di critica videoludica. Tale commento è presente in un articolo di approfondimento dal titolo “Critica videoludica, pluralismo e libertà di espressione”, pubblicato dal critico Mosè Viero sul suo sito lamascherariposta.it 

In questo articolo l’utente si scaglia contro chi fa Game Critic, ed esprime una sua idea di recensione critica scrivendo: 

"La mia idea di recensione è questa: devi farmi capire alla fine se il gioco mi potrebbe piacere. Se devo sentire l'opinione di qualcuno, posso andare anche al bar. A me, lettore, che mi frega dei tuoi gusti? Niente. Ma i tuoi gusti vanno a fare da base per la valutazione. No. L'obiettività la si impara sapendo distinguere ciò che rientra nei propri gusti personali da ciò che è un dato di fatto."

Ciò che vengono definiti i “fatti”, in questo caso, equivale al voler sapere come funziona e cosa è contenuto in un videogioco. In pratica, quali sono gli elementi oggettivi presenti. Parliamo di una recensione basata quindi su elenchi di cose che si possono fare o meno, se le meccaniche sono rotte o meno, se il sistema di combattimento è fluido, eccetera. I fatti. Parliamo di un tipo di personalità che elimina l’elemento introspettivo, poiché ritenuto personale, relativo, inutile ai fini della valutazione critica finale di un videogioco. 

Non a caso, a rafforzare tale orientamento l’utente scrive:


"Un videogioco non lo interpreti, lo giochi. Ha dei menu, dei controlli, una trama, animazioni, meccaniche, tecnologie, musiche che si conoscono. Cosa interpreti?"

Secondo me è interessante notare come l’autore del commento soprassieda sul videogioco quale summa delle sue parti, un prodotto che in realtà comunica in modo olistico la propria anima trascendendo i suoi vari elementi categorizzabili. Una musica meravigliosa può essere meravigliosa se presa isolatamente, ma fastidiosissima o addirittura pretenziosa su di un pessimo gameplay. Le animazioni dei personaggi possono essere manchevoli di rifinitura, ma accompagnate da una trama coinvolgente, possono diventare trascurabili, per dire.

Il problema di fondo, per ciò che ne penso, è che il videogioco non viene visto come uno spazio di espressione del tipo di personalità di chi gioca. Quindi la critica non viene considerata come un documento espressivo culturale di chi un determinato videogioco lo ha giocato. Persiste una sorta di “scienza della critica videoludica” definita in termini rigidi: è il luogo in cui domina una separazione chiara e distinta tra soggetto – il giocatore - e l’oggetto d’analisi – il videogioco. 

Ora, all’interno della scienza tradizionale, la linea divisoria tra soggetto e oggetto è solitamente considerata sacra. Ma sempre leggendo Il secondo io di Sherry Turkle, è interessante sapere come i teorici dell'intelligenza artificiale, nei loro studi, alla fine spesso dichiarano di comportarsi come gli psicanalisti, di voler cioè risolvere questa separazione tra riflessione oggettiva e soggettiva. 

C’è un solo luogo da cui trarre idee sull’intelligenza, e questo è il pensare a se stessi”, dice uno scienziato di intelligenza artificiale dell’università di Yale. 
Alla fine ho solo me stesso, ed è di questo che mi devo fidare” afferma lo scienziato. Che è quello che secondo me, come dicevo nella puntata precedente, dovrebbe contraddistinguere il lavoro di un buon critico videoludico. 

Generalmente si tende a soprassedere sul fatto che la critica è determinata dal rapporto che si ha con il videogioco, a sua volta determinato dalla personalità del giocatore. Due giocatori possono rappresentare due estremi culturali diversi, con differenti stili relazionali rispetto al videogioco.

Tornando al libro di Sherry Turkle, la scrittrice afferma che alcuni bambini si ritrovano al loro agio nel manipolare oggetti, mentre altri sviluppano le loro idee in modo più emotivo, attraverso un linguaggio che decodifica aspetti del mondo più difficili da concretizzare, come le sensazioni, i colori, i suoni e i rapporti personali. Tutto ciò per la Turkle concerne anche il rapporto che si può stabilire con il programma di un computer, e quindi con il videogioco che gira in un computer, e che può fare emergere ciò che lei definisce l’interscambio della conversazione.

Per intenderci, c’è chi programma col manuale alla mano e chi come un pittore, il quale lascia che il disegno emerga dall’interazione col mezzo di espressione.

Ora, i tipi morbidi, più aperti, cercano di creare con il videogioco dei rapporti che superano l’oggettività. Ciò che si crea a contatto con un videogame è un linguaggio per comunicare, per negoziare con una entità sì ludica, ma comportamentale. In fondo il videogioco è una realtà artificiale prodotta da menti e sensibilità umane che lo hanno programmato, e che quindi possiede una propria personalità che va oltre le sue categorie separabili.






Tornando all’articolo pubblicato su sito lamascherariposta, ad un certo punto il lettore critica un’analisi critica del proprietario del sito, scrivendo: 

"Mi sembra strano fare un elenco dei difetti di un gioco e poi dire: mi piace!"

Nel libro di Sherry Turkle vengono messi a confronto due ragazzini programmatori del codice di un computer. La ragazzina possiede un atteggiamento più emotivo: parla al computer, danza quando emette suoni, e in definitiva lo utilizza interpretando in modo creativo le sue possibilità. Questo infastidisce tremendamente il ragazzino che ha un approccio più formale, alla ricerca di una esperienza del programma che risulti perfetta, senza sbavature. L’atteggiamento di lei gli fa provare un vero disagio. 
Ciò secondo me esprime proprio il risentimento - da parte di chi è più rigido - riguardo quelli che sono i contributi aperti, intimi e personali di chi fa critica, riguardo la mancanza di oggettività. E questo al contempo giustifica la pretesa, l’ossessione per l’oggettività critica nei confronti del videogioco. 
Mi spiego meglio. 
Ad un certo punto la ragazzina commette un errore di programmazione. Nel momento in cui sta girando il suo programma di gioco, il computer richiede una seconda volta al giocatore l’inserimento della stessa risposta, come se non capisse subito l’istruzione. Ma nel rapporto che aveva stabilito con la macchina, questo bug - che al tipo rigido, abituato ai manuali e a seguire la programmazione corretta infastidiva vedere - a lei piaceva. Lui trovava questo arrogante, non lo sopportava, ma a lei il programma sembrava così più umano. Avrebbe potuto cambiarlo, eliminarlo, ma la ragazzina questo bug lo simbolizzava, lo integrava nel tessuto interpretabile dell’opera finale. 

I fautori della oggettività troverebbero questo inaccettabile. Si focalizzerebbero su quel problema come accade quando ci si focalizza sui problemi tecnici di frame rate, sulla pressapochezza di una soluzione grafica, il combat system o una compenetrazione poligonale, ad esempio. E ovviamente, se un critico vuole focalizzare l’attenzione su questi elementi è libero di farlo, ci mancherebbe. 
Il problema è che per quanto di natura ontologicamente informatica, il videogioco non è solo un programma formale di una macchina seriale, bensì una istanza interpretabile. Secondo personalità, secondo cultura personale, secondo discrezionalità, ma parliamo di un realtà interpretabile.
Ciò mi porta a riflettere sul come l’essere aperti al pensiero critico altrui voglia dire fondamentalmente auto-educarsi a mettersi nei panni intellettuali e culturali di un’altra persona. Immaginare cosa succede alla sensibilità di un altro a contatto con l’artefatto videogioco. Parliamo quindi di apertura, di empatia, comprensione, riconoscimento, confronto e negoziato con gli altri. Non può esserci oggettività in questo.
Ma ciò – e questo lo ribadisco perché proprio non riesco a non pensarlo – secondo me dipende in misura prevalente da chi scrive di videogiochi. È lì la sfida critica che deve interessare il lettore. Se un lettore non è interessato a conoscere il pensiero altrui, è anche perché non è stato mai stimolato a farlo. Perché non ha mai rappresentato una istanza così culturale, il testo di un’analisi critica di un videogioco. Perché ormai ha un’idea di critica standardizzata su certi modelli visibili, proposti e rintracciabili ovunque, che lo portano a credere che le recensioni alla fine siano documenti senza personalità, tutti uguali, e che leggere quindi un testo di 3000 parole è meno utile che leggerne uno di 50.
E qui torno a ribadire il fatto che la critica è culturale. Ha cioè il compito implicito di allargare l’approccio e quindi il carattere dell’esperienza che si può fare – in questo caso – anche del videogioco. 
Sherry Turkle, non a caso, scrive “Il discorso che circonda un oggetto contribuisce alla costruzione della cultura di cui l’oggetto è parte.” 

"Mi sembra strano fare un elenco dei difetti di un gioco e poi dire: mi piace!

Ecco, non si tratta solo di elasticità mentale, ma di un superamento del timore a favore di un ampliamento della propria capacità interpretativa. 

Penso ad un artista a cui cade il quadro a terra e viene bucato, tipo, e l’autore decide di tenerlo così com’è. La critica non pensa che il quadro sia difettato, ma lo analizza come parte dell’opera, donandogli un significato espressivo compiuto. Con questo non sto dicendo che anche un videogioco rotto, per inettitudine di chi lo programma, debba sempre essere interpretato positivamente perché è sempre Arte, no. Sto solo prendendo questo come pretesto per ribadire che è solo considerando un approccio fluido alla interpretazione, che il critico esalta e dona un aspetto culturale all’anima di un’opera. 

In sede di analisi critica, così come di lettura della stessa, per me questo esprime un superamento della paura di perdere il controllo, una paura della libertà che coloro che si lasciano andare possiedono. È un gioco fra rischio e sicurezza, anche nella cultura della Game Critic. 

Perché solitamente, se un lettore legge una critica videoludica in cui emerge l’interpretazione soggettiva del suo autore, in cui vengono scomodati certi riferimenti culturali, di solito pensa che sia esagerato dare tanta attenzione e importanza a un videogioco. Spesso si crede che il gioco – per un consenso culturale mai stabilito - meriti molto meno di quanto sappia vederci qualcuno che a livello interpretativo sa lasciarsi andare. Mi riferisco al superamento dell’idea che nel videogame non vi sia nulla di più di quello che c’è. E quindi categoricamente non deve esserci nulla su cui non si può avere controllo. E se il videogioco sta quasi tutto nella sua tecnica, non devono esserci problemi tecnici per una buona valutazione finale. E se il livellamento del personaggio è discutibile, bisogna focalizzarsi su questo, e il critico non può prendersi la libertà di non approfondire tale aspetto solo perché ha trovato la trama più coinvolgente, tipo. 

Cosa me ne faccio delle interpretazioni personali del recensore” scrive l’utente di cui sopra. Io la vedo come un affermare un certo timore, una paura di sentirsi soverchiati dal dover accettare e integrare cose non filtrate da noi stessi, provenienti da altri esterni a noi, di cui non si ha controllo. 

Nel libro di Sherry Turkle c’è un programmatore del tipo rigido che si dichiara contento di non vedere in faccia le persone con cui si confronta. Contento di poter operare una selezione dell’interlocutore, quando è su internet. Questo programmatore scrive che è bello utilizzare mail e internet perché – cito – “è come comunicare con un’altra persona, ma non un estraneo. È comunicare con qualcuno che sa esattamente come mi piace che le cose siano fatte.

Nell’articolo sul sito lamascherariposta, ad un certo punto il lettore di critica videoludica redarguisce il critico scrivendo: 

"Si possono nascondere i gusti personali provando a pensare a quello che ti dicono gli altri che sono solitamente in disaccordo con te, o che hanno gusti diversi. O il loro punto di vista non è da considerare?"

Ecco, per me questo è un intervento molto sintomatico. In pratica il critico dovrebbe nascondere le proprie opinioni – viste come gusti personali – per tenere di conto e integrare nella propria analisi chi è in disaccordo con lui. In pratica parliamo della pretesa che il ruolo di chi fa analisi critica, esprimendo il proprio giudizio personale, debba essere quello di tenere di conto della opinione di chi legge, nell’esercizio del proprio lavoro. Come se dovesse svilupparsi una sorta di democraticità di giudizio, quando si avanza l’analisi personale di un videogioco. 


Quello che per mia esperienza ho notato dopo anni di lavoro nel settore - sia di lettore che di produttore di critica di videogiochi - è che spesso la resistenza dei lettori è direttamente proporzionale alla intensità dell’apertura e della opinione personale di chi si esprime nella critica videoludica. Si verifica cioè una sorta di schermatura dovuta a ciò che viene sentita come una pretesa, da parte del critico, di stabilire la propria personale verità. La pretesa di obiettività diventa quindi un attacco a difesa di questo assalto sentito come diretto, personale, da parte del lettore-giocatore. Le premesse per acquistare un gioco non possono basarsi sulla interiorità, sulla sensibilità o sui gusti di chi gioca, ma su ipotetici fatti stabiliti oggettivamente, che poi decretano il giudizio finale. 
È come se un certo tipo di lettore tendesse a eliminare l’elemento personale del redattore dalla equazione di un’analisi critica. Come se l’opinione dello stesso dovesse essere ininfluente, restare fuori dall’analisi dell’opera. In estremo, è come se il punto di riferimento per esprimere un giudizio critico debba essere l’opinione di chi leggerà, non di chi fa esperienza di un videogioco e l’analisi la scrive, la firma, e se ne assume le responsabilità. 

Perché trovo interessante analizzare questa pretesa molto particolare? Perché concerne il negare che i fatti vanno interpretati alla luce del giudizio personale, delle proprie opinioni, e non da autorità collettive esterne stabilite in modo oggettivo e istituzionale. Non esiste il critico oggettivo e universale dei videogiochi, poiché non esiste una cultura oggettiva e universale del personale, quando si fa critica di videogiochi. Ma secondo questo orientamento, ecco che le opinioni personali sono viste come espressioni parziali, dei preconcetti viziati. La recensione non è una discussione, e quindi sono meglio i forum per stabilire ciò che oggettivamente può o deve piacere a chiunque, e ciò che chiunque deve invece trovare oggettivamente negativo o deprecabile. Se il critico non fa questo, è un pessimo critico, perché ha un alta considerazione di sé. E una persona che esprime liberamente le proprie opinioni deve essere per forza una persona talmente convinta che la propria opinione sia fortemente condivisa da chiunque da diventare cieca al fatto che non sta trasferendo informazioni a nessuno. 

Non a caso, il lettore de lamascherariposta continua a dare contro al critico di videogiochi scrivendo: 

"Una analisi come la fai, me la fai su delle opinioni? Puoi fare un elenco di dati di fatto e fare paragoni con altri videogiochi per dimostrare che quella scelta degli sviluppatori è stata buona o cattiva, molto usata o innovata. Poi ognuno sa da sé se certe soluzioni gli sono congeniali o no. A chi frega di come l'ha trovato il recensore?"

"Ma perché non ti fai i cavoli tuoi? Che ne sai se quello che non piace a te invece piace ad altri? Non piacerà a te, ma agli altri cosa frega? I tuoi gusti sono tuoi, tieni per te le tue opinioni. Sarebbe il caso di provare a ragionare anche con la testa degli altri. Lo ritengo un piccolo segno di rispetto del punto di vista degli altri.

Sentendosi escluso, in questo caso il lettore crede di essere una minoranza che il critico non ha la decenza di rispettare. Invece di ragionare anche con la testa degli altri, in segno di rispetto del loro punto di vista, il critico si muove da sé. E questo per certi versi è insopportabile. Fa davvero pensare al ragazzino indignato dalla libertà di mantenere un bug da parte di una compagna di classe: ragazzina che vuole tenerlo nel SUO programma, tra l’altro. Così come un recensore mette la propria firma alle SUE analisi critiche, lei ne ha tutto il diritto, tutta l’autorialità. 

E torniamo al programmatore del libro della Turkle, a cui piace comunicare solo con qualcuno che sa esattamente come a lui piace che le cose siano fatte. 
Perché tali esempi secondo me sono importanti, quando si vuole riflettere sulla critica videoludica? Perché l’atteggiamento culturale che potenzialmente si può sviluppare verso il videogioco, la trattazione critica che può condurre a riflettere rispetto allo scenario culturale che apre o può aprire un videogioco - e quindi eventualmente al suo acquisto - è quella che io considero una critica videoludica d’arte - o critica dell’arte videoludica. Detto in altri termini, lo “scopo” della critica videoludica, per tornare al commento iniziale dell’articolo di Todeschini, non è solo “pipponi su bug, grafica, longevità e ca**ate varie” – così come la si vuol far passare - bensì parte di una cultura che può far evolvere il giocatore a livello di pensiero critico, nel suo rapporto con il mondo, con ciò che gli accade attorno, dal punto di vista psicologico e sociale. E quindi, in definitiva, quale essere umano. 
Mi riferisco ad una evoluzione intellettuale che parte dal videogioco, lo critica e che infine lo trascende, mettendo sul piatto aspetti che vanno oltre il gioco stesso. Secondo me è qui che si trova il senso di una vera Game Critic: tutto il contrario di una concezione votata alla valutazione di chi sa CHI sono e cosa davvero vogliono tutti i giocatori. Perché se davvero il successo della critica connessa al trattare i videogiochi passasse attraverso il conoscere CHI sono tutti i videogiocatori, e se davvero è solo all’1% di tutti questi che interessa andare oltre il voto e riflettere culturalmente sui videogiochi, bè, il deserto culturale è l’unica cosa che ci aspetta. 
E io a questo non voglio crederci. 


Mi rendo conto di come sia facile pensare che tutti i videogiochi alla fine siano solo trastullamenti con i quali divertirsi: si leggono i numeri, si guardano le classifiche, questo è ciò che vogliono i giocatori e questo alla fine è ciò che conta. Può essere che pochi la vedano in questo modo, o magari molti ci hanno riflettuto su un attimo e hanno deciso che non gliene fregava nulla, ma la critica, ogni critica, può anche farsi latrice – fra le altre cose – di assumersi implicitamente l’impegno di evolvere in meglio il rapporto che ogni uomo può avere con un artefatto culturale. Fosse pure – o forse soprattutto – nel fargli mettere in discussione ciò che ama, la sua passione, fargliela criticare. 
Me ne rendo conto – nel mio piccolo - quando alcuni spettatori che seguono i miei live streaming commentati, dopo che ho espresso le mie riflessioni su di un titolo indie giocato magari dopo mesi dalla sua pubblicazione, mi contattano in privato ringraziandomi per la live, tenendomi a far sapere che hanno acquistato quel videogioco. Un videogioco, mi fanno sapere, che dopo aver visto video o aver letto voti o le analisi della maggior parte dei siti di critica specializzata o meno, credevano che non avrebbero acquistato mai. Parliamo di videogiochi, ma mi riferisco soprattutto ad una esperienza personale di gioco che se non ne avessi trattato - liberamente, a mio modo e secondo quelli che sono i miei riferimenti culturali, la mia sensibilità ecc.. – non sarebbe entrata nella loro sfera di interesse, di riflessione e di gioco mai. 
Inutile dire che durante le live il mio intento nel consigliare l’acquisto di un titolo è pari a zero, non me ne frega nulla. Io condivido l’esperienza perché quella esperienza mi dà qualcosa che sento il bisogno di esprimere, di comunicare. 
La stessa cosa si verifica quando, dopo aver pubblicato una mia analisi, nei commenti mi si fa notare che il mio voto si discosta di due o tre punti rispetto ad altre analisi. Quando specifico che ho scritto la mia analisi senza aver letto altre critiche, e che non ho la minima idea delle votazioni ricevute dal gioco da me analizzato, può succedere come accaduto quando un lettore – e qui cito - ha poi commentato in questo modo: 

Ben più importante (del voto finale, ndr) - è il testo (...) che nonostante il bel voto e l'entusiasmo del recensore (mi ha portato a pensare, ndr) “non un gioco per il sottoscritto. (...) Ma una recensione che, a dispetto della valutazione soggettiva, dà gli elementi a chi legge per farsi un'idea propria, secondo me è una recensione ideale.” 

Ecco, sono queste le occasioni in cui mi giunge forte il sospetto che sia questo lo “scopo” ideale di una critica videoludica. Mi riferisco al modo in cui un videogioco può entrare in contatto con la propria esistenza, psicologia, sensibilità, miti personali, modi di leggere la società – attraverso il filtro culturale di un altro. Io credo che leggere la critica videoludica degli altri abbia la sua funzione più importante nel formare il proprio senso critico, e quindi i propri criteri di giudizio, autonomi e personali. 
Come diceva il ricercatore alla Yale che studiava le intelligenze artificiali: “Alla fine ho solo me stesso, ed è di questo che mi devo fidare”. 

Personalmente, in qualità di lettore, ciò che cerco dalla Game Critic è una rivelazione. L’espandere la mia interpretazione del mondo attraverso quanto e oltre ciò che di ludico può esprimere un videogioco. Le firme che sino ad oggi mi hanno ispirato sono sempre state quelle libere, che si esprimevano in modo autonomo, con la propria personalità, portandomi a pensare a quanto potente e preziosa e ricca di significati culturali possa essere un’opera videoludica, in un modo che altrimenti non avrei sospettato mai. 
E ho compreso che si può essere informati anche – e meglio – sull’acquisto di un videogioco leggendo le personalissime opinioni altrui sullo stesso, considerando quindi la critica videoludica portatrice di istanze culturali connotabili ben oltre il suggerimento commerciale. 

La questione per me a questo punto è: nel mondo della Game Critic, quando si vuole leggere una critica sui videogiochi, oltre alle “recensioni su Steam che sono molto più sincere e dirette”, c’è bisogno anche della personalità di chi scrive, della complessità del pensiero critico, di un “Wall of Text di 2000 parole” e della cultura personale di chi fa critica di videogiochi? 

Sì. Io dico assolutamente sì. Oggi più che mai, sì. 

Liquidare il lavoro critico altrui attraverso un “Cosa me ne faccio dell’opinione dello scrittore, anch’io ne ho una”, non solo connota in genere un ripiegamento sul sé intriso di relativismo, che non porta ad alcuna evoluzione personale, ma sa tanto di debolezza culturale che non può che fare male alla cultura del videogioco. 
La mentalità di tipo funzionale, che ricerca il meccanico, il quantitativo e l’oggettivo, rema contro l’apertura verso l’altrui espressione umana. Mi riferisco ad una mentalità che porta poi a credere che il voto finale del critico – in qualità di persona singola – sia necessariamente meno attendibile della media di quello collettivo degli utenti. 

Citando sempre il ricercatore dell’università di Yale, che in questo caso tratta dei risultati dei suoi esperimenti, questi scrive: 
Quando ero al college mi sono convinto che non si può imparare molto facendo la media delle risposte di un gran numero di persone. Quello che dovevi fare era qualcosa del tipo che fece Freud, con tutti i suoi limiti.” 

Come si legge dopo, questa cosa da fare, per il ricercatore, andando oltre il logico, lo scientifico e il razionale – è una cosa molto intima e personale: si chiama introspezione




Il videogioco è anche un dispositivo introspettivo che allarga nel giocatore sensazioni, emozioni, intuizioni immediate, insight… elementi difficili da tradurre e riportare in un’analisi, ma è qui che sta la sfida culturale. Considerandolo soltanto quale accozzaglia di meccaniche ludiche e tecnologia, e negando il suo essere un artefatto culturale fluido, aperto alla sensibilità di chi lo interpreta e lo analizza, il videogame diventa qualcosa che puzza di morte del senso della ricerca, anche della semplice curiosità di come un altro essere umano può e sa filtrarlo culturalmente, questo videogioco. Bisognerebbe essere riconoscenti, verso chi si apre. Perché è solo tramite il confronto con l’espressione critica di chi decide di mettere in gioco la propria sensibilità, che si può riflettere e conoscere più se stessi e maturare un senso più profondo, a contatto con l’esperienza di un videogioco. 

Ovviamente queste sono solo rielaborazioni ragionate di mie interpretazioni – che possono essere prese o meno quali ipotesi diagnostiche riguardo i modi in cui viene percepita la produzione critica di chi si esprime sui videogiochi. Il pluralismo, la differenza di opinioni, sono istanze che per chi legge dovrebbero essere un potente dato culturale di conoscenza per comprendere e andare oltre al capire se un’opera potrebbe piacere o meno. 

Perché il problema alla fine è sempre lo stesso: il credere che un’analisi critica debba basarsi sui fatti per adempiere alla mera funzione di orientamento all’acquisto. Una funzione connessa cioè al sacrificio di tirare fuori i soldi o meno. Parliamo letteralmente di un problema di “industria culturale”, di una risposta sistemica - del sistema che si è generato - in cui una certa cultura videoludica – fra critici e lettori - ha ormai approntato un arsenale di modalità espressive, cliché e stereotipi argomentativi per sostenere certe posizioni coerenti, protette e consolidate. Ma la loro coerenza resta quella tipica di una cultura industriale, alimentata cioè da chi fa critica in un modo intellettualmente condizionato, prefabbricato. 
Ma ciò sarà oggetto di riflessione nella prossima puntata, quella finale di questa trilogia dedicata alla Game Critic. 

Grazie per l’ascolto e per l’interesse in Ludenz Monocast, che al solito ricordo essere uno dei canali culturali del progetto di convergenza Ludenz. Un appuntamento aperiodico come la rivista Ludenz, che è possibile ricevere con una donazione recandosi su www.ludenz.it

Alla prossima. Ciao."

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