N.B. Nell'ottica di Ludenz quale progetto di convergenza crossmediale, quella che segue è la trascrizione in forma testuale - arricchita da link e immagini - dell'episodio#5 di Monocast, il format di podcast di Ludenz basato su monologhi di riflessioni afferenti alla cultura del video gioco.
È possibile ascoltare l'episodio integrale qui.
"Quest’ultima
puntata della trilogia dedicata alla Game Critic sarà una riflessione sul fenomeno
del plagio relativo a chi fa critica di videogiochi, al fine di generare un
discorso complessivo sulla cultura della critica del videogioco. L’invito è
quello di recuperare – per chi non li avesse ascoltati - i due episodi
precedenti, dato che si tratta di un discorso organico, strutturato e
correlato.
La prima volta in cui ho scoperto di
essere stato plagiato è avvenuto dentro l’aula di una università, e più
precisamente ad un seminario di approfondimento relativo ai risultati di una
ricerca commissionata da Sony Italia sulle relazioni fra videogiochi,
reclutamento professionale digitale e social network, ricerca affidata alla
Facoltà di Scienze della Comunicazione di una nota università romana. Fra i
relatori c’era un insegnante di facoltà che parlando di realtà virtuale, di
strategie di narrazione digitale e di cyberspazio, per presentarsi aveva
proiettato una sua dispensa, o forse un articolo presente sul suo sito online.
Questo articolo trattava di un film a cui tempo prima avevo dedicato
un saggio sul mio blog, e che era stato poi anche pubblicato sul portale videoludica.com.
Così, mentre il professore
introduceva la propria persona, mi sono ritrovato a leggere sullo schermo pezzi
del mio articolo, zeppi di riferimenti all’analisi che avevo avanzato. Ricordo
che erano le stesse persino le immagini, per capirci. La persona che mi aveva
accompagnato all’evento, un giornalista di videogiochi che conosceva bene la
mia produzione saggistica, subito mi ha chiesto se non fosse proprio il mio
saggio, quello che era proiettato sullo schermo. Ricordo di avergli annuito, a
confermargli il tutto. Durante il seminario lui aveva insistito nel darmi di
gomito, invitandomi a farlo presente, perlomeno a dire qualcosa, ma io ho
lasciato correre.
Ricordo che mi sentivo imbarazzato,
più che altro. Ma non per me, nel vedere il plagio del mio lavoro, ma per il
professore. Un insegnante che per la sua attività di ricerca veniva – presumo -
ben pagato, e io che al tempo invece lavoravo part-time in un call center, a
prendermi le bestemmie dei clienti ogni santo giorno…
Ecco, diciamo che la situazione mi
faceva abbastanza specie, più che altro.
La seconda volta in cui ho scoperto
di essere stato plagiato è stato grazie ad una citazione pubblicata all’interno di
un articolo del mio blog, e relativa ad uno scrittore la cui produzione letteraria era sempre
stata lontana dai videogiochi. Avevo trovato la cosa abbastanza curiosa, e
quindi vi avevo scritto un pezzo ad hoc. Pochi giorni dopo alcuni stralci
rimaneggiati del mio articolo, assieme a questa citazione, erano comparsi sul
portale di un noto sito specializzato di videogiochi, a firma di uno dei suoi
giornalisti. Tra l’altro, nei commenti all’articolo, il giornalista s’era anche
preso i complimenti pubblici per il pezzo da parte del suo caporedattore.
Ancora ricordo oggi quanto al tempo mi ero divertito nel leggere i commenti in
cui l’autore si comportava con disinvoltura, come se davvero fosse stato lui ad
arrischiarsi intellettualmente a scoprire un autore, un’isola, da solo.
L’ultimo plagio che ho scoperto in
ordine di tempo è stato sempre consultando uno dei principali portali italiani
che si occupano di video games. Parliamo di un articolo celebrativo per
l’anniversario di una famosa saga di videogiochi.
Tempo prima avevo pubblicato sul mio blog un saggio
sulla stessa saga.
Il mio lavoro era stato preso, sezionato e copiato nelle parti più funzionali
al discorso. Tre o quattro frasi erano rimaste pressoché le stesse - oltre a
vari riferimenti - ma devo dire che il tutto era stato rimodellato con un bel
lavoro. Anche in questo caso non ho voluto sollevare un polverone. Ho fatto
presente la cosa ad alcuni contatti privati, ma senza esporre nulla
pubblicamente o altro.
Questi sono soltanto tre esempi
personali di cui sono venuto fortunosamente a conoscenza, ma dopo anni di
scrittura di videogiochi, immagino che sparsi in giro vi siano altri plagi, o
quanto meno altri riferimenti e richiami alla mia produzione. E chissà quanti
altri saggisti, o articolisti vengono plagiati senza saperlo, è chiaro.
In ogni caso, ad agosto 2018 è
comparsa in rete la notizia che un Editor di IGN-US, tale Filip Miucin,
era stato accusato di plagio. Si è poi scoperto che interi pezzi della sua recensione di
Dead Cells, opera dello sviluppatore Motion Twin, erano stati presi di sana
pianta dal canale indipendente dello YouTuber Boomstick Gaming, che proprio
alcuni giorni prima aveva pubblicato la sua videoanalisi dello stesso gioco.
In un
video diventato poi virale, Filip Miucin aveva evitato di confrontarsi con la natura dei
suoi errori, oltre
che di scusarsi e ammettere chiaramente il plagio. Anzi, aveva poi lanciato una
sfida al portale Kotaku - altro importante sito di videogiochi che lo aveva
accusato - a trovare altri plagi nella sua produzione critica.
E così veniva scoperto che prima di
essere licenziato da IGN, che riguardo alla recensione di Dead Cells aveva
trovato il plagio così massiccio da risultare impossibile giustificarlo
editorialmente, molte delle analisi critiche di videogiochi e anteprime
presenti su IGN e sul canale YouTube di Filip Miucin erano plagi inconfutabili
di contenuti critici altrui. In pratica Filip Miucin aveva un passato da
plagiatore che aveva attinto a siti di videogiochi, YouTubers, forum e
addirittura pagine di Wikipedia.
Ma perché parlare di Filip Miucin,
nell’ambito di questa trilogia di puntate sulla critica di videogiochi? Perché
credo che il caso Miucin connoti alcuni aspetti che per loro natura e
concezione culturale, infestano la critica videoludica. Chiamare in causa Filip
Miucin, vale a dire un plagiatore di critica videoludica, equivale a chiamare
in causa l’intero ambito culturale della Game Critic, assieme a molte altre
istanze che caratterizzano la sua produzione.
Ora, non è questo lo spazio in cui
ribadire come internet sottenda un modello d’impresa aperto e gratuito - penso
al software libero, alla musica gratuita, e in definitiva alla cultura della facilità
della copia che si è imposta nel tempo, e che ha creato una sorta di modello
economico neoliberista dominante online, basato appunto sul concetto di
gratuità. Dove i confini tra l’omaggio, la citazione e il plagio oggi sono
sempre più sottili, e le logiche di produzione capitalistiche invadono anche le
attribuzioni di valore, è innegabile considerare come tutto questo vada ad
unirsi al fatto che quanto più le capacità tecnologiche
aumentano, tanto più diminuisce la facoltà immaginativa umana.
Ma ripeto, non voglio indagare gli
aspetti meramente produttivi riguardo la critica videoludica, scomodando ad
esempio le pressioni alle quali un giornalista, un critico di videogiochi che
scrive per un grande portale, fra scadenze e consegne varie può sentirsi
assoggettato.
Quanto accaduto con Filip Miucin
fornisce però l’opportunità di trattare alcuni aspetti più strettamente
connessi alla cultura del videogioco, trasformandosi in un esempio del tipo di
rapporto viziato che il digitale può ingenerare nello scrittore rispetto ad un
certo orientamento culturale nell’intendere la critica videoludica.
Come già trattato nelle riflessioni
dei due Monocast precedenti, il caso Filip Miucin
fornisce secondo me l’opportunità di riflettere su alcuni aspetti critici della
critica di videogiochi, e mi riferisco in particolare all’assenza di un
rapporto più soggettivo e personale che si può – e a questo punto diciamo anche
si deve - stabilire con l’oggetto d’analisi che è il videogioco. Perché – è qui
entro nel merito - oltre che di scarsa attribuzione di valore alla propria
professionalità - connessa in questo caso al ruolo di giornalista, di editor -
ciò che più dovrebbe far riflettere è la considerazione che si ha del
videogioco inteso quale ambito culturale.
Perché il plagio fatto ai livelli di
Filip Miucin, non è acritico, bensì ideologico. Implica cioè l’assunzione che
vi sia una oggettività sulla quale - in questo caso – si basa una buona analisi
del videogioco. Per intenderci, viene plagiato ciò che, secondo il giudizio del
plagiatore, è considerato oggettivamente esaustivo, completo, funzionale nel
fornire un resoconto critico.
In tutti i suoi plagi, Filip Miucin
non ha mai plagiato a caso. Nelle sue ricerche per raccogliere informazioni in
giro ha preso ciò che ha ritenuto di buon valore nei contenuti e nella forma,
secondo una prospettiva di informazione esaustiva per il portale IGN, oltre che
secondo la sua idea di ciò che formalmente deve offrire una buona critica
videoludica.
Perché credo sia importante
specificare questo? Perché è qui che una simile attitudine - il plagio della
critica videoludica - esprime apertamente l’idea mercificata che si ha del
videogioco, oltre che della stessa critica del videogioco. Non si tratta solo
di pigrizia al pensiero di dover scrivere una recensione/ un’analisi - come
inizialmente sarebbe più facile e logico pensare. Si tratta del distacco
sistematico, reiterato e totale, dal considerare che il produrre propri
contenuti critici, oltre alla conoscenza culturale dell’oggetto d’analisi,
dipende anche e soprattutto dal rapporto che si ha col proprio sé, con le
proprie capacità speculative intime e personali.
Io credo che se molte delle analisi
critiche si somigliano tutte, è perché presumono una forma mentis di chi le
produce connessa a certe modalità analitiche divenute standardizzate. E qui
ripeto e ribadisco che se i giocatori affermano pubblicamente – ad esempio – di
fregarsene di leggere un testo critico di 2000 parole, è anche perché la
critica videoludica – specializzata o meno - è sempre più affetta dall’assenza
di questo rapporto esistenziale e personale con l’oggetto analizzato.
Questa concezione mercificata della
critica videoludica non coincide solo con il non sapere andare oltre certi
aspetti di analisi sicuri e formalizzati. Il problema è che non si dispone di
una propria riconoscibile voce. In ambito critico, mi riferisco all’assenza di
una propria personalità. Io credo che se la critica fosse più soggettiva, più
intima, più autoriale, denotando così una cultura della scrittura in grado di
marcare l’identità, il pensiero e lo stile personale di chi scrive, i critici
come Filip Miucin - o chi per lui - non potrebbero così facilmente
appropriarsene. Ma il problema è proprio che la maggior parte della scrittura
connessa ai contributi critici sul videogioco si nutre - per continua
frequentazione e osmosi – di contenuti formali, stereotipati e impersonali
presenti e reperibili sulla rete, generando un circolo vizioso di imitazione,
di modelli relazionali standardizzati con lettori e spettatori, e in definitiva
di un modello culturale innocuo, sistemico e socializzato.
Fra i vari commenti relativi al caso
Filip Miucin – ma ripeto, chissà quanti altri plagiatori ci sono nel mondo
della critica di videogiochi – una delle considerazioni lette e che ricordo mi
hanno fatto più riflettere, è stata quella di qualcuno che ipotizzava il fatto
che Filip Miucin non si fosse giustificato o scusato perché, magari, non poteva
ammettere pubblicamente d’essersi servito di ghost writer per la redazione dei
testi dei suoi pezzi, e che quindi si fosse trovato ad essere accusato a causa
di recensioni plagiate da suoi ghost writer, e non da lui.
Non voglio entrare nel merito di
quanto questa possa essere una eventualità possibile o meno. Sta di fatto che
anche se avesse voluto subappaltare la redazione del testo di una critica
videoludica a terzi, il discorso non cambia: ciò continua a ribadire lo scarso
valore culturale che si attribuisce al rapporto che si può avere con la propria
firma, col proprio nome, con la propria eredità intellettuale, e infine, con
l’oggetto culturale della propria passione: il videogioco. La cosa più intima
che si può esprimere di sé stessi, vale a dire il proprio stile, la propria
voce, la relazione psicologica e multidisciplinare che può instaurarsi fra la
propria cultura e l’oggetto d’analisi – il videogioco - con il ghost writing viene
rimessa ad un terzo che resterà sconosciuto.
Perché è importante sottolineare
questo, trattando di videogiochi?
Perché una tale delega fantasma
equivale non solo - formalmente - a ingannare il lettore, dato che colui di cui
legge un contenuto non è la stessa persona che lo ha firmato. Cosa più
importante, ribadisce di nuovo la considerazione che si ha nei riguardi della
critica del videogioco, intesa quale espressione culturale industrializzata,
per la quale, volendo sfruttare a proprio vantaggio la voce e le capacità
critiche di un altro, è sufficiente assicurarsi che vengano trattate in fase di
analisi – al fine di attestare un buon lavoro critico - certe componenti
tecniche consolidate del videogioco analizzato: grafica, sonoro, gameplay,
longevità, ecc…
In pratica, l’istanza critica e
culturale di un videogioco, che dovrebbe essere espressione intima di chi fa
critica, diventa un prodotto segretamente affidato in outsorcing ad un’azienda
esterna. In altri termini, sia nel ghost writing che nel plagio, il ruolo autoriale,
personale e professionale del critico, della sua firma, viene praticamente
polverizzato, disintegrato.
In questo mondo digitale, in cui si
resta barricati dietro una tastiera e viene garantita la fisica incolumità, è
vero che non ci si può ferire fisicamente l’un l’altro, ma lo si può fare
moralmente, che a volte è anche peggio. Colui che plagia lo fa grazie
all’esistenza di internet, di questo mondo digitale. Vale a dire un mondo in
cui è facile sentirsi deresponsabilizzati.
Fuori dalla rete non si ruberebbe
così facilmente un oggetto fisico prodotto o assemblato da un altro essere
umano. Il valore oggi sta nell’impegnarsi a sentire un’etica nella tentazione
di farlo quando è più comodo farlo. A edificare la propria onestà e dignità
partendo da ciò che pur fisicamente invisibile, è possibile avvertire. Mi
riferisco alla possibilità di considerare, sempre e comunque, l’altro. Così
come l’impegno culturale in qualità di lettori risiede nel mettersi nei panni
intellettuali di un altro essere umano che fa critica di videogiochi, il valore
di chi scrive sta nel sentire comunque - dietro le parole prodotte da un altro
- non un’assenza fisica, l’assenza di un testimone, bensì un altro essere
umano. La virtù del lettore, del giocatore e del critico di videogiochi sta nel
sentire il medium delle parole altrui come un canale che conduce ad un altro
essere umano, al fine di allinearvisi per empatia, per umanità.
È una
delle espressioni egoistiche più grandi, quella del plagio. Rubare il prodotto
intellettuale del tempo-vita di un altro essere umano che si è dedicato a
produrre qualcosa, dove invece quello stesso tempo-vita il plagiatore lo aveva
dedicato a sé, a fare altro.
Io credo che oltre la gratuità di
Internet, oltre un certo sistema culturale che affligge il modo di fare analisi
critica, il plagio nasca in un certo senso da una crisi personale
dell’identità. Nasca cioè dal trovare relativo, dal fregarsene che la propria
voce, espressa pubblicamente, sia in tutto o in parte quella di un altro. E con
la crisi, è risaputo che alla fine bisogna ripartire da se stessi. Ripartire da
quello che si sente, da quello che si prova, dalle proprie emozioni. E quando
ci si esprime – anche nel caso della critica di videogiochi – ripartire
dall’assumersi l’impegno di affrontare il timore dell’introspezione, e del
lasciarsi andare. Tutti elementi che parlando del rapporto con la propria
scrittura, è facile che vengano estromessi quando si scrive per fare critica
videoludica. Ma quando c’è una crisi, è inutile girarci attorno: bisogna
ripartire da se stessi. Qualunque orientamento psicologico afferma la necessità
di questo. Bisogna mettere da parte gli automatismi, i pensieri compromessi,
l’indulgenza nei confronti di se stessi che stanno alla base di ciò che si
scrive, si pensa, così come dei modi in cui si metabolizzano i videogiochi - e
probabilmente molte altre cose della propria esistenza.
Perché considerare la recensione critica un prodotto industriale e
pre-confezionato che può essere plagiato, è in primis il risultato di un
automatismo culturale. Il risultato di una cultura orgogliosa quanto
condizionata, in piena crisi d’identità. Ed è così che la critica videoludica
può perdersi poi nella propria malafede, nei suoi vizi, e nel rifiutare di
scusarsi – come ha fatto Filip Miucin - dopo essere sfociata a muso duro nel
plagio." (Nota 1)
Nota 1 – Il 20 aprile 2019, otto mesi dopo le accuse,
attraverso un video pubblicato sul suo canale YouTube Filip Miucin si è scusato ammettendo apertamente il suo plagio. È possibile trovare il video qui.
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